di Michele De Vitis

Nei giorni in cui i principali leader, come i peggiori contadini, annunciano di “organizzare il proprio campo” pensando alla raccolta senza aver seminato, un nuovo progetto politico sembra mettere piede sulla scena con contenuti potenzialmente dirompenti e forme più spigliate e meno tradizionali del solito.

Il “fronte per la crescita”, finora ancora in formato orizzontalmente direttoriale, senza titoli, ruoli e leader, ha lanciato nel tempo ripetuti appelli alla società civile e agli elettori smarriti, invocando a più riprese il rinnovamento della classe dirigente sulla base di un messaggio genuinamente liberale.

Meno Stato, meno spesa, meno tasse: è questo il filo comune di diverse iniziative associative (Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo e Fermare il Declino di Oscar Giannino in primis) che vent’anni dopo ripropongono con storie nuove e maggiore credibilità le promesse fallite da Berlusconi, ora però incoraggiate nel merito dalla ventata liberale portata dallo sprint del miglior Monti.

Pur tra le resistenze dei partiti, la crisi economica e la guida “tecnica” hanno costretto infatti un Paese sostanzialmente conservatore a dover ridiscutere le proprie abitudini e la propria mentalità, aprendo un solco e preparando terreno fertile per quei principi innovatori, autenticamente liberali, tanto trasversalmente decantati quanto universalmente lasciati sulla carta per tutta la Seconda Repubblica.

È proprio la necessità contingente di continuare a promuovere una simile piattaforma valoriale – oltre che programmatica – a rendere ora questa nuova offerta politica interessante da seguire in vista di un vero cambio di rotta non più solo all’interno del dibattito pubblico, ma anche nelle istituzioni rappresentative, senza le quali le decisioni pubbliche non sarebbero collettive.

Insomma, in molti avvertono che editoriali, appelli, articoli, proposte e discorsi debbano trovare una più immediata traduzione facendosi ampio movimento di massa, strutturandosi in organizzazione non necessariamente partitica. Nell’attesa, mentre un giorno in più diventa un giorno in meno, si consuma sullo sfondo il dilemma che da sempre accompagna la tradizione liberale: riusciranno le buone idee a prendere più voti che applausi?

Accarezzata piacevolmente da tutti, ma abbracciata convintamente da pochi, l’offerta politica autenticamente liberale ha avuto sostanzialmente due espressioni partitiche principali nella storia repubblicana: il PLI nella Prima Repubblica e il Partito Radicale (rectius Lista Pannella, Lista Bonino, Lista Bonino Pannella e Rosa nel Pugno) dal 1994 in poi.

Entrambe le esperienze a livello nazionale non hanno mai raggiunto la doppia cifra in termini elettorali e hanno inciso solo sotto traccia nella storia politica italiana, recitando un ruolo da comprimarie – se non da parenti povere – chi persino al governo nel pentapartito o all’opposizione al tempo dei governi del centrosinistra, chi nelle alleanze alterne e sfortunate del 1994 e del 2006, tra fughe solitarie e approdi sicuri nelle liste del PD.

Nonostante leadership forti e carismatiche – quella di Giovanni Malagodi negli anni Sessanta e quella di Emma Bonino nel 1999 – che hanno fatto registrare le migliori performance al voto, entrambi i soggetti politici hanno faticato a diventare alternativa, quando volevano esserlo. Le lacune mai intellettuali si sono incrociate principalmente con vezzi elitari ed esclusivi o, paradossalmente, con un’eccessiva e leziosa coscienza di classe che ha tenuto lontane le masse, interessando senza per forza convincere solo quella fetta di elettorato che Beppe Severgnini ha ribattezzato il Five Millions Club (vale a dire quei cinque milioni di italiani – probabilmente sempre gli stessi – che comprano regolarmente un quotidiano, che vanno regolarmente in libreria e che guardano regolarmente in televisione i programmi di approfondimento politico).

E così al grido di “Pochi, ma buoni” e “Meno siamo, meglio stiamo”, i liberali, ironicamente al pari dei socialisti, hanno cominciato a pascolare in riserve politiche sparse, trovando cantucci più o meno confortevoli e sinceri in diverse grandi case politiche, talmente grandi da poter contenere di tutto senza permettere sintesi ragionate ed efficaci.

Oggi, nei mesi di un vuoto politico pre-elettorale per molti simile a quello che preparò l’illusione liberale di Berlusconi, mentre il sistema attuale dei partiti assomiglia a una palafitta vanamente trincerata, l’orologio della storia sembra concedere una nuova occasione a chi crede che lo Stato non debba fare quello che i cittadini sanno fare da soli, a chi mette al centro l’individuo per creare le condizioni di una crescita economica che sappia di rinascita politica e sociale.

È un’opportunità da non sprecare attorcigliandosi su finalità personali e settarie a metà tra il polveroso e lo sgargiante; una scommessa da vincere aprendosi alla società con ambizione maggioritaria e di governo, facendo emergere storie comuni, parlando un linguaggio almeno pop se non popolare, che renda più spediti messaggi e proposte.

Vedremo nelle prossime settimane quale capacità di aggregazione riusciranno a dimostrare i “nuovi liberali”.

 

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