di Davide Ragnolini
In una recente intervista alla rivista “Left”, apparsa il 17 agosto, il prof. Luciano Canfora spiegava concisamente le ragioni di un appello ad un “cosmopolitismo”, una parola presentata dall’articolista come “sempre più necessaria, da riscoprire, nel suo senso più profondo”. È curioso, però, che di questa parola non ne sia stato presentato minimamente ai lettori il suo significato, per così dire, più ‘elementare’, cioè quello che muove proprio dal senso etimologico e dall’origine storica della parola,
di Davide Ragnolini

In una recente intervista alla rivista “Left”, apparsa il 17 agosto, il prof. Luciano Canfora spiegava concisamente le ragioni di un appello ad un “cosmopolitismo”, una parola presentata dall’articolista come “sempre più necessaria, da riscoprire, nel suo senso più profondo”. È curioso, però, che di questa parola non ne sia stato presentato minimamente ai lettori il suo significato, per così dire, più ‘elementare’, cioè quello che muove proprio dal senso etimologico e dall’origine storica della parola, almeno nel suo uso moderno.

La storia filosofico-politica di questo termine rivela una semantica complessa, dall’antica nozione stoica di “kosmopolis”, che nacque come generalizzazione della “polis” greca, e che non impedì di concepire per lungo tempo all’interno delle stesse prospettive stoiche – si pensi a quella di Seneca – la compresenza di “duae res publicae”, l’una inclusiva che abbraccia dèi e popoli diversi, e l’altra, più esclusiva, costituita dai singoli Stati in cui gli uomini nascono per sorte (De Otio, IV); o ancora, accanto a questa, la distinzione tra uomini razionali e uomini bruti, che avrebbero una parvenza simile a quella “di animali ed esseri inanimati” (De vita beata, V). Alla storia plurale – e accidentata – della categoria concettuale di cosmopolitismo, è dedicata, tra numerosi contributi, la monografia di Luca Scuccimarra (I confini del mondo. Storia del cosmopolitismo dall’Antichità al Settecento, il Mulino, Bologna 2006), che consente di ri-orientarci in questo specifico topos del pensiero occidentale fino all’ideale settecentesco del “cosmopolitismo del mercato”. Sarà proprio questa forma di cosmopolitismo a cui Marx indirizzerà le sue ironiche osservazioni nelle pagine di Zur Kririk der politischen Ökonomie (1859), nelle quali il carattere ‘cosmopolita’ figurerà più come proprietà della merce che degli uomini (“la relazione cosmopolitica fra gli uomini [fu] in origine soltanto il loro rapporto come possessori di merce”, scriveva il filosofo di Treviri). Ma, insomma, di cosmopolitismo di uomini e popoli, e non di merce, si deve parlare, proprio come è inteso dal prof. Canfora in questa provocatoria intervista.

Nemmeno Erasmo, che prima di pubblicare la sua Consultatio sull’opportunità di muovere guerra contro i Turchi (1530) affidò alle sue pagine alcune delle riflessioni politiche più universaliste della prima modernità, aveva concepito un’unione propriamente cosmopolitica tra i diversi popoli. Qualora gli Stati e i prìncipi in Europa si trovassero in “vera concordia” senza però riuscire ad estirpare il morbo della guerra, chiedeva Erasmo nella sua celebre Querela pacis (1517), “perché non riversare piuttosto contro i Turchi questa disgrazia?”[1] Ben lungi dal rappresentare l’antesignano di un cosmopolitismo contemporaneo, Erasmo riprodusse l’antica logica platonica dell’opposizione statis/polemos, dove cioè era soltanto la prima, la guerra civile tra cristiani, ad essere concepita come motivo di scandalo e oggetto di riprovazione morale in modo analogo alle guerre tra gli stessi Greci.

Il primo traduttore del termine greco “kosmopolites” in lingua moderna fu, piuttosto, il francese Guillaume Postel (1510-1581), che coniò appunto il termine “cosmopolite”. Nella sua opera De orbis terrae concordia (1544) il visionario prospettò sì un progetto di riconciliazione dell’umanità in un’unica entità politica e religiosa, ma affidando alla corona francese questo compito messianico.

In seguito, due tra le principali utopie ireniste moderne apparse in Francia, il Nouveau Cynée (1623) del letterato Émeric Crucé e il Grand Dessein (1638) del Duca di Sully, lungi dall’essere progetti cosmopoliti, furono entrambe opere gallocentriche, concepite cioè in chiave filo-francese e anti-asburgica e, in particolare la seconda, manifestamente anti-turca. Émeric Crucé pensava ad una sorta di “assemblea di tutti i monarchi del mondo”[2] in cui vigeva una specifica gerarchia tra i suoi membri: benché non superiori al Papa o al Sultano, i re di Francia godevano di uno status diverso rispetto a tutti gli altri: ai sovrani francesi, infatti, “non si può contestare la loro precedenza almeno nei confronti degli altri re”.[3]

In altre sue opere, inoltre, Crucé manifestò attitudini che oggi definiremmo ‘scioviniste’, elogiando le vittorie militari di Enrico IV di Francia contro Filippo II (Adonia seu Mnemosynon Henrici magni, 1613), o ancora quelle di Luigi XIII contro le minoranze ugonotte e la resistenza piemontese in Monferrato (Iselaction, 1628-29).

Sully, da parte sua, riteneva che le guerre tra Europei dovessero essere convertite in guerre extra-europee, ovvero in una “guerra perpetua contro gli infedeli”, estendendo le conquiste europee non soltanto a quelle regioni in Asia che si trovavano “in una posizione comoda”, ma anche all’intera “costa dell’Africa”, considerata “troppo vicina ai nostri territori per garantire una nostra completa sicurezza”.[4] Poco ‘cosmopolita’, del resto, era la sua attitudine verso i vicini spagnoli, a cui nel 1555-56 Carlo V aveva già trasferito al figlio Filippo II, de facto dividendo l’Impero, i possedimenti imperiali iberici, mentre le cosiddette “terre ereditarie” (Austria, Boemia, Ungheria) vennero affidate al fratello Massimiliano I. Per l’irenista francese la divisione delle terre imperiali non bastava: la Casa d’Austria doveva essere spogliata del suo Impero, riducendo questo alle sole dimensioni della Spagna, e fare in modo che, “da tutte le parti in Europa” fosse dichiarata guerra alla stessa Spagna. È sotto queste condizioni che Sully pensava il progetto di un’Europa governata “come un’unica grande famiglia”.[5]

Simili piani formulati da questi autori irenisti riflettevano le geometrie di interessi materiali e geopolitici che agitavano la diplomazia del mondo europeo del loro tempo. Gli stessi ‘cosmopoliti di tutto il mondo’ (e di ogni tempo) pensano il mondo, almeno in certa misura, entro il loro mondo e il proprio tempo.

Non di rado, i cosmopoliti contemporanei a cui si allude miticamente nell’articolo – ammesso e non concesso esista un loro comune orizzonte culturale nel tempo e nello spazio, nonché esistano riferimenti teorici universalmente condivisi – subordinano questo compito di riconciliazione ad un nucleo di attori storicamente (già) esistenti. Non è (o almeno non soltanto) al modello della “Santa Alleanza” a cui ci si può qui riferire, cioè a quell’idea, già espressa da Danilo Zolo nel suo Cosmopolis (Feltrinelli, Milano 1995), per cui la promozione del cosmopolitismo viene de facto relegata alla politica estera di un gruppo ristretto di Stati.

La ragione per cui tale cosmopolitismo appare ridotto in una forma “molto elementare” è, forse, ancora più complessa: ogni modello cosmopolitico è mediato oggettivamente dalle circostanze storiche, e soggettivamente dalle opzioni ideologiche, strategiche, o anche soltanto emotive dei suoi sostenitori. Vi è chi crede che questo compito debba essere affidato ad una rete di entità transnazionali sovrastatali (Banca Mondiale, FMI, FAO), oppure ad organizzazioni non governative sub-statali (Oxfam, WWF, Amnesty), o ancora per il tramite degli stessi Stati, attraverso il ricorso ad una politica di egemonia liberale nelle organizzazioni internazionali esistenti (Consiglio di sicurezza ONU). Ancora: vi sono ‘cosmopoliti’ che sostengono l’ideale di rapporti paritetici tra Stati e al contempo la necessità di un unipolarismo internazionale, con un’America leader ma ‘de-trumpificata’, un’Europa unita ma a traino franco-tedesco, e una Russia e una Cina indipendenti ma filo-occidentali.

Insomma, ieri come oggi, i tipi di “one-worlders” sono molti. Quale cosmopolitismo, dunque? È a fronte di questa complessità, che è storica e filosofica al contempo, forse, che il “cosmopolitismo” dovrebbe costituire più oggetto di attenzione scientifica, prima ancora che parola d’ordine politica. Questo sì sarebbe un contributo utile al dibattito sul cosmopolitismo: un’occasione per riflettere sul lessico delle dottrine internazionalistiche, dagli abusi ideologici di singoli concetti ai loro molteplici usi storico-filosofici.

 

[1] ERASMO, Querela pacis [1517]; trad. it. Il lamento della pace, in ID., Scritti teologici e politici, Bompiani, Milano 2011, p. 1525.

[2] E. DE LA CROIX, Nouveau Cynée ou discours d’Estat – Represéntant les occasions et les moyens d’establir una paix génerale et la liberté du commerce par tout le monde [1623]; trad. it. Il nuovo Cinea, a cura di A. M. Lazzarino Del Grosso, Guida, Napoli 1979, p. 134.

[3] Ivi, p. 131.

[4] SULLY (duca di), Sully’s Grand design of Henry IV: Memories of Maximilien de Béthune, Sweet and Maxwell, Limited, London 1921, p. 35.

[5] Ivi, p. 25.

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