di Alessandro Campi
Per il M5S in caduta verticale di consensi a beneficio dell’alleato leghista, come confermato da tutti gli appuntamenti elettorali degli ultimi mesi svoltosi soprattutto in quel Sud che ne aveva segnato il trionfo, la vicenda mediatico-giudiziaria che ha coinvolto il sottosegretario Siri ha rappresentato un inatteso regalo propagandistico (a meno di non maliziare sulla giustizia ad orologeria).
Gli ingredienti di questo controverso caso sono quelli che hanno fatto la fortuna del grillismo sin dalle origini: l’affarismo criminale che si insinua nelle istituzioni, la corruzione da combattere senza sconti per nessuno, la denuncia della cattiva politica… Nell’imminenza del voto europeo poteva Di Maio lasciarsi scappare una simile occasione? Il massimo della visibilità per il suo partito, il massimo dell’imbarazzo per Salvini.
Il problema è il prezzo politico di qualche guadagno percentuale nelle urne (che i sondaggi peraltro ancora non registrano nelle forme sperate, nel mentre la Lega paradossalmente continua a crescere nei consensi potenziali). Quanto può durare il governo giallo-verde dopo il “siluramento” di Siri annunciato dal Presidente del Consiglio su richiesta pressante dei vertici del M5S? Il 27 maggio – questo il convincimento diffuso – si avrà il redde rationem: giusto il tempo di contare la forza reale dei due partiti e poi ognuno per la sua strada. Lo sbocco più naturale a quel punto non potranno essere che le elezioni anticipate.
Ma forse la domanda giusta è un’altra. Quello operato da Conte è stato davvero un atto di forza o piuttosto un azzardo che in prospettiva potrebbe costargli caro? In questo caso, a finire non sarebbe il governo ma l’avventura, nata quasi per caso, di chi attualmente lo guida. L’attuale premier – un anonimo (per il grande pubblico) benché apprezzato professore di diritto – era stato scelto alla stregua di un garante tra i due sottoscrittori il contratto di governo. Tale soprattutto lo ha sempre considerato Salvini, che ora gli imputa (non senza ragione) di essersi troppo appiattito sulle posizioni grilline.
L’accusa peggiore è in realtà un’altra: quella di essersi messo a giocare politicamente in proprio, immaginando un ruolo per sé anche quando questo governo, per una qualunque ragione, non ci sarà più. Un eccesso di autonomia e d’ambizione che non va bene a Salvini, ma che probabilmente non è gradito nemmeno a Di Maio. Che se un lato si è nascosto dietro Conte per chiudere la pratica Siri nella maniera da lui desiderata, dall’altro ha molti motivi per temerne la crescente popolarità dovuta ai suoi modi garbati e al suo eloquio mai fuori misura.
In prospettiva – questo il timore dell’attuale vice-premier – Conte potrebbe davvero diventare il grillino ragionevole, preparato, moderato e pragmatico capace di far dimenticare agli elettori le intemperanze verbali e la vena dilettantistica dei vertici del movimento. Insomma, un competitore diretto più che un uomo di fiducia.
Con Conte è insomma successo quel che accade sempre quando per qualche importante ruolo istituzionale si sceglie una personalità di secondo piano con l’idea di poterla poi condizionare o manovrare. Ma inesorabilmente la funzione ricoperta, la visibilità acquisita, i bagni di folla inebrianti e il potere concretamente gestito finiscono per dare forza e consapevolezza di sé anche al più debole o timido dei politici. Ed ecco che la comparsa si trasforma in prim’attore, rubando la scena agli altri protagonisti.
Ragione di più per provare, dopo le europee, a togliergli la parte di Presidente del Consiglio che ha finito per prendere troppo sul serio. Sacrificare Conte per salvare il governo del cambiamento? Non è uno scenario del tutto peregrino, visto che su quest’obiettivo potrebbero al dunque convergere sia Salvini che Di Maio. Nel frattempo c’è però da risolvere il caso Siri. Dopo le dichiarazioni di ieri di diversi esponenti leghisti, che hanno escluso l’ipotesi di dimissioni volontarie, si va verso una decisione in Consiglio dei ministri, dove i grillini detengono la maggioranza. Toccherà a loro assumersi la responsabilità di una scelta traumatica che Salvini potrà facilmente denunciare come un tradimento e un gesto politicamente irresponsabile.
Ma la caduta del governo è, come detto, un’altra cosa: possibile, ma non inevitabile, a dispetto delle divisioni politiche e delle liti personali tra i due alleati. Non si vede infatti all’orizzonte un cambiamento di scenario politico (e di umore collettivo) o una possibile alternativa all’attuale coalizione: col Pd in fase di lenta ricostruzione e il centrodestra berlusconiano privo di una solida guida si può solo scommettere, come alcuni in effetti fanno, su un cataclisma economico che porti dritto – su pressione europea – ad un esecutivo tecnico-presidenziale. Una soluzione già sperimentata (senza peraltro grandi successi) e che è stata una delle cause del successo del fronte populista. Meglio dunque che la politica faccia il suo corso, invece di immaginare scorciatoie pericolose e o comunque al momento impraticabili. E nel mentre il fronte giallo-verde si logora nelle sue contraddizioni (che spesso è solo uno scaltro gioco delle parti) perché i suoi avversari non si fanno venire qualche idea capace di orientare diversamente gli elettori il giorno in cui, tra un anno o tre, si tornerà alle urne?
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