di Teresa Serra*

Troppi gli argomenti che giustamente emergono nelle considerazioni espresse da Danilo Breschi sull’Istituto di politica, dal tradimento dei referendum, alla corruzione e, sostanzialmente, alla grave crisi della rappresentatività che comporta arroganza del potere e incapacità di comprendere i problemi del paese. Arroganza del potere perché oltretutto mi pare che si supponga che la democrazia abbia superato il problema della fallibilità umana. Basta essere al potere per essere infallibili? Basta far ricorso all’emergenza come fonte di legittimazione di questa infallibilità?

E vengo ad alcuni punti specifici sulla dolorosa tassa sulla casa. Ingiusta non solo perché contraria, per quanto riguarda la prima casa, ad un preciso dettato costituzionale e di difesa dei diritti dell’uomo. Ingiusta perché tassa solo una categoria di cittadini e non realizza equità con i patrimoni non immobiliari, ma nessuno dice che nella maggior parte dei casi si tratta anche di una tassa sul debito. Cioè si tassa anche quella quota di casa, ipotecata e per la quale si paga un mutuo. Nessuno fa notare che anche la rateizzazione è una beffa? Perché a fronte di un cinquanta per cento versato prima di dicembre si realizza un 66 per cento versato prima del 16 dicembre. Cosa dire della pressione fiscale che toglie potere d’acquisto e che in molti casi spinge a scegliere tra pagare le tasse o acquistare generi di prima necessità quali le spese alimentari? Allora si è costretti a non pagare l’IMU. Se crescono i furti della scatola di tonno al supermercato, se cresce la fila davanti alla caritas, se si moltiplicano le pubblicità fatte da chi acquista oro e argento, se crescono i suicidi della disperazione, se il mercato dell’auto è calato in una percentuale molto alta e gli stessi consumi alimentari sono diminuiti del 9 per cento, si può pensare a far ripartire l’economia senza intervenire sul potere d’acquisto delle famiglie che salverebbe il mercato e quindi riavvierebbe la produzione?

Io non sono un economista ma forse la ricrescita non parte dalla riforma del mercato del lavoro, dalla patetica richiesta di investimenti dall’estero – chi vuole investire se non ha il mercato pronto ad acquistare il prodotto? Forse investe in acquisto del debito pubblico visto che le condizioni si mantengono favorevoli alla speculazione –, ma dal potenziale del mercato interno che ancora incide per una percentuale molto alta e se manca il potere d’acquisto e quindi il mercato interno, se le regole vengono modificate un giorno sì e un giorno no, e quindi non consentono un progetto che possa essere proiettato nel tempo, se il principio che spinge il legislatore è la speculazione finanziaria che mi pare venga assistita e garantita al punto che si fanno le manovre per riacquistare la fiducia del mercato finanziario e non per risolvere il problema, dove va l’economia?

Far crollare il Pil, come sta avvenendo, non è certo un modo per risolvere il problema del debito pubblico, ma per aggravarlo. Dice Gianfranco Pasquino, commentando Breschi, che non è la corruzione a far cadere le democrazie, ma a far cadere società e civiltà sì. E la corruzione impedisce anche che si risolvano i problemi nella maniera più ovvia. Perché ogni decisione ha per principio guida l’interesse del politico corrotto. Ad esempio anche l’immissione sul mercato del patrimonio pubblico. Sarebbe preda degli speculatori.

Cosa fare per dare alla società la direzione del paese? Innanzitutto realizzare un ricambio della classe politica. Giustamente leggo da Breschi una considerazione di Gianfranco Miglio: “il peggior malanno che possa toccare a una repubblica di uomini liberi sta nell’avere detentori del potere che mutano solo apparentemente”. I partiti oggi si stanno riposizionando ma cambiando l’ordine dei fattori e cambiando il nome il prodotto non cambia. Allora se la società vuole essere democratica in un momento di grave crisi come questa non può più delegare le decisioni fondamentali che la riguardano ad una classe politica incapace e corrotta che tende a perpetuarsi e rifiuta il ricambio, ad un governo tecnico che non è responsabile verso l’elettorato e che a mio giudizio tecnico nel senso vero del termine non sempre è. E allora è necessario l’impegno di tutti sia sul versante di un dissenso rafforzato nei confronti di politiche che mostrano di non realizzare l’interesse generale ma di essere succubi di interessi diversi, sia l’intervento di tutti per formare nuovi soggetti politici, nuove forme aggregative che oggi esistono ma non riescono a fare un salto di qualità costituendosi in reti e presentandosi all’elettorato come un soggetto politico di nuovo conio.

Occorre passare dalla critica, sacrosanta attraverso tutte le forme di dissenso e quindi valorizzando la forte istanza partecipativa della disobbedienza civile, ai fatti. Dovremmo auspicare, ma non solo auspicare ma operare in questa direzione, che si possa passare da un impegno di opinioni e manifestazioni all’organizzazione di soggetti politici nuovi, che non siano espressione di potentati, ma che possano intervenire con un programma che nasca dal basso, dalle reali esigenze di un paese e quindi fuori dagli interessi ormai stratificati e consolidati della classe politica e dei suoi manovratori, fuori dalle logiche di potere. La disobbedienza civile può essere una risposta in un paese democratico quando la democrazia fa acqua. E ci siamo. Ma non basta perché l’arroganza del potere potrebbe anche renderla funzionale alla sua conservazione. Sono innumerevoli i movimenti, ciascuno chiuso nel suo ambito “rivendicazioni stico”, che in realtà contribuisce a mantenere un dialogo se pure in negativo con la classe politica di fronte alla quale rivendica i suoi diritti senza riflettere sui diritti degli altri. Occorre fare rete tra i movimenti e quindi coordinare le rivendicazioni realizzando un progetto politico comune.

Occorre passare dal rivendicazionismo alla “propositività” e alla realizzazione di nuove entità politiche almeno nel tentativo di immettere forze nuove al parlamento per fargli acquistare dignità e funzione, per tentare di operare una reale mediazione tra paese reale e istituzioni. Sarebbe questa la vera rivoluzione democratica. Gli italiani stanno comprendendo sulla loro pelle che la misura è colma e la diminuita circolazione di danaro forse può dare un piccolo colpo al clientelismo. Il rifiuto dell’obbligo politico nei confronti di chi non consideriamo legittimato è sacrosanto, ma altrettanto sacrosanto è che si sostituisca questo obbligo con un impegno politico. È verissimo che chi saprà fare la sintesi dei vari cahiers des doléances provenienti dalla penisola potrebbe guadagnarsi un ricco bottino di voti. Ma questa sintesi proviamo noi tutti anche a farla aiutando i vari movimenti a passare da una fase rivendicativa ad una fase propositiva e intervenendo direttamente nella competizione elettorale.

* Professore ordinario di Filosofia politica nell’Università di Roma “La Sapienza”

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