di Alessandro Campi
Posti di lavoro in cambio di voti. Il clientelismo è un fenomeno politico vecchio come la parola che lo descrive: clientes, già nell’antica Roma, erano quei cittadini che per la loro protezione economica e giuridica s’affidavano a un patrono. Nel passato remoto quest’ultimo era il membro di una famiglia potente. Nelle democrazie contemporanee sono i partiti. Che un tempo venivano votati soprattutto per i programmi e le idee che esprimevamo. Mentre oggi, persa l’originaria caratterizzazione ideologica, sono più che altro macchine addette alla gestione di un potere sempre più precario e di risorse sempre più scarse, che inevitabilmente generano un consenso sempre più effimero.
Rispetto alla corruzione-concussione, che implica lo scambio di denaro e un tornaconto economico illecito per il singolo, il clientelismo rischia di apparire una pratica socialmente più accettabile. L’idea, molto italiana e strutturalmente qualunquista, è che così fan tutti e che così s’è sempre fatto. Se non fosse che preferire qualcuno solo perché politicamente leale o fidato (e sorvoliamo per carità di patria sulle prebende concesse a parenti e amanti seconda una pratica nepotistica in realtà anch’essa antica) è per la società un danno più grave di quanto s’immagini: si toglie a chi merita, generando una frustrazione che presto o tardi non può che esplodere, e si alza la possibilità statistica di mettere le nostre vite nelle mani degli incapaci. A chi giustifica le clientele bisognerebbe sempre augurare di finire sotto i ferri di un chirurgo mediocre assunto per ordine di un assessore.
Clientelismo puro, cioè senza dazione, è appunto quello che ha svelato l’inchiesta giudiziaria abbattutasi in questi giorni sull’Umbria e che ha portato all’arresto del segretario regionale del Pd Gianpiero Bocci e alle dimissione del Presidente della regione Catiuscia Marini. Vicenda interessante da seguire perché, al netto dei risvolti penali tutti da provare e delle facili contumelie moralistiche che accompagnano simili vicende, essa svela bene come e perché siano cambiati gli equilibri sociali (e dunque politici) nell’Italia degli ultimi due decenni. Il fenomeno cui si allude è naturalmente lo scoloramento inesorabile dell’Italia un tempo rossa e monocroma, oggi diventata policroma e arcobaleno, con una incidenza crescente del verde leghista e del giallo grillino.
Parliamo della cosiddetta “Italia di mezzo” (né bianco-clericale né nostalgico-sanfedista né laico-liberale) segnata per più di mezzo secolo dall’egemonia politico-ideologica del Pci e delle formazioni che ne hanno preso il posto dopo la sua dissoluzione forzata. Uno modello politico che era anche un modello sociale peculiare: integrato, comunitario, aperto al cambiamento ma tendenzialmente conservatore sul piano dei valori, basato sulla mediazione-contrattazione degli interessi, su un capillare controllo del territorio e sullo scambio tra consenso e un alto livello di servizi sociali. A tessere la tela del consenso era appunto il partito, sostenuto da una corona organizzativa che abitualmente comprendeva il sindacato, le cooperative, le associazioni culturali, le strutture ricreative dell’Arci, le case del popolo, le polisportive, le organizzazioni naturalistiche, l’Anpi, le associazioni delle donne, i patronati e centri di assistenza fiscale.
Il voto in questa parte d’Italia si trasferiva di padre (o madre) in figlio/a, sulla base di una memoria collettiva nutrita d’antifascismo (spesso enfatizzato per far dimenticare la precedente e spesso massiccia adesione al regime) e a conferma di quanto la famiglia (quella oggi liquidata proprio dalla sinistra come “tradizionale”) fosse considerata il centro della vita collettiva. Anche sul piano economico, come dimostra il passaggio storico dalla mezzadria agricola alla piccola impresa artigianal-industriale che ha caratterizzato queste aree a partire dagli anni Cinquanta.
Nel caso dell’Umbria, rispetto al resto dell’Italia rossa, v’era un più accentuato dirigismo economico, avente il suo fulcro nell’ente regionale e nelle sue politiche di programmazione. Il mercato e l’innovazione industriale guidate dalla politica (e dunque dal partito), secondo un keynesismo ortodosso che nell’Italia repubblicana è stato condiviso e praticato anche da altre culture politiche.
Ma a un certo punto è cominciata lo smottamento, divenuto da ultimo slavina. Certo ha contato, a partire dal 1989, la fine dell’Unione Sovietica come sistema ideologico e blocco di potere cui per decenni s’era guardata come a un mito (in Umbria ci si imbatte con frequenza in cinquantenni che di nome fanno Katiuscia, Vladimiro, Ivan o Yuri e in piazze o vie dedicate agli eroi dello Sputnik). Ma i fattori veri di trasformazione, che la sinistra ha drammaticamente scoperto di non saper guidare, sono stati soprattutto altri. Ad esempio, la diffusione dei valori individualisti, ovvero il passaggio dal comunismo al consumismo, come l’ha icasticamente definito Mario Caciagli in un suo recente libro dedicato proprio alla crisi delle “regione rosse”: nel mentre esso ha contribuito a laicizzare il voto, svincolandolo dalle antiche e obbligatorie appartenenze, divenute quasi gabbie mentali per le nuove generazioni, ha anche prodotto lo sfaldamento delle reti comunitarie tradizionali, messe sempre più in crisi da modelli culturali basati sull’accumulo di ricchezza e sull’ostentazione (laddove il socialismo appenninico, socialismo francescano nella declinazione umbra, inclinava alla frugalità e a una certa morigeratezza dei costumi).
Molto ha anche contato la fine della “rendita d’opposizione” di cui per decenni aveva goduto il Pci. Quando i suoi eredi, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, sono divenuti forza di governo nazionale non c’è stata più la possibilità di lucrare sul contrasto tra centro e periferia, come quando a Roma comandavano sempre la Dc e i suoi alleati laici.
Poi è subentrata la prolungata crisi economica, che ha inceppato i meccanismi redistributivi dello stato sociale territoriale e messo in crisi una struttura produttiva in alcuni casi troppo organizzativamente fragile per affrontare la competizione su scala globale.
Ma da non trascurare è anche il cambio antropologico-funzionale del vecchio ceto politico della sinistra locale. Dal predominio del dirigente di partito, che dettava la linea a chi governava sul territorio, si è progressivamente passati a quello degli amministratori-assessori incistati nei gangli del potere locale, resisi sempre più autonomi dalle direttive politiche e più interessati alla tutela delle proprie carriere che al perseguimento di una qualche idea dello sviluppo.
C’è infine un dato di psicologia collettiva da non trascurare. L’apprezzamento per il “buon governo” – che è stato un fatto reale dell’Italia rossa, al netto del clientelismo – alla fine si è rivoltato nel fastidio per il “lungo governo”. Una presenza troppo prolungata al potere genera il convincimento fallace di poterlo detenere per sempre, facendone quasi una proprietà privata, e un senso di impunità che finisce per far apparire normale ciò che invece è anomalo (quando non semplicemente reato). Ma essa produce anche un rigetto irrazionale una volta che si sia superata la soglia della tolleranza sociale (e della pubblica decenza). Come appunto sembra improvvisamente capitato in Umbria, dove tutti sapevano (avendone spesso ampiamente beneficiato: diciamola tutta!) di certe pratiche spartitorie a livello di impiego pubblico, ma dove ora si respira come un clima di liberazione e di caduta meritata dei potenti sino a ieri riveriti e ricercati.
Il problema è che se un modello è storicamente finito, dando poca prova di riuscire a rigenerarsi se non affidandosi alla ramazza della giustizia, non si capisce cosa possa prenderne stabilmente il posto. Laddove la Lega vince tuttavia non convince, non essendo ancora riuscita a trasferire nel Centro Italia il sistema virtuoso di amministrazione che ha saputo invece creare in molte parti del Nord. Non parliamo poi del pressapochismo dei grillini laddove sono stati messi alla prova del governo locale. A dimostrazione che il potere politico costruito solo nelle urne, per pura reazione emotiva e rabbiosa rispetto al passato, rischia di essere effimero senza una base di consenso morale, una rete di relazioni sociali e una classe di dirigenti e amministratori che al partito di Salvini e a quello di Grillo-Casaleggio ancora mancano. Insomma, un’egemonia (quella rossa) s’è conclusa, un’altra è ancora tutta da costruire: ammesso sia desiderabile, quale che ne sia il colore, un ciclo politico e di potere altrettanto lungo e pervasivo.
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