di Alessandro Campi
Dopo gli exit poll, la conferma dalle proiezioni e dagli scrutini finali. In Emilia Romagna, con un significativo margine su Lucia Borgonzoni, ha vinto Stefano Bonaccini (51,4 vs 43,6). In Calabria, con molto più scarto sul suo rivale Filippo Callipo, ha trionfato Jole Santelli. (55,4 vs 31) Se Salvini sperava di prendersi il Parco della Vittoria padano, deve accontentarsi del Vicolo Corto bruzio (dove vincente è peraltro una storica esponente del berlusconismo). Non è riuscita la spallata che doveva mandare a casa, oltre al socialismo appenninico al potere da decenni, anche il governo giallo-rosso al comando da pochi mesi.
L’attesa per questo voto era grandissima, probabilmente eccessiva quanto ai suoi possibili effetti sulla politica nazionale. Lo dimostra l’affluenza alle urne. Nel 2014 (quando Bonaccini vinse per la prima volta) aveva toccato il minimo storico. Solo il 37,7% degli aventi diritto era andato ai seggi: un misto di stanchezza e disaffezione incredibile in un territorio che da sempre gode d’un grande benessere collettivo e d’un radicato sentimento civico. Stavolta ha votato il 67,6% dei cittadini (una quota persino superiore, anche se di pochissimo, all’afflusso delle ultime europee: 67,3%). Lo scontro è stato molto (troppo) polarizzato su base nazionale e l’incertezza era, sondaggi alla mano, in effetti grande: è stata una di quelle occasioni in cui l’elettore ha l’impressione che il suo voto conti (politicamente) e possa anzi essere decisivo (sul piano dei numeri). E dunque va al seggio fortemente motivato. In Calabria, dove il risultato è parso più scontato e c’è stato meno accanimento ideologico, non si è avuto lo stesso effetto: nel 2014 ha votato il 44,1% dei cittadini, stavolta più o meno la stessa percentuale (44,3).
E proprio questa massiccia corsa al voto (soprattutto nelle zone urbane storicamente più orientate a sinistra) ha favorito Bonaccini (la cui coalizione ha anche fatto meglio di quella del centrodestra: 48,1 vs 45,4). La sua missione, per ribaltare i sondaggi a lui lungamente sfavorevoli, era chiara ma tutt’altro che semplice: riportare a sinistra quegli elettori che nel frattempo erano andati a destra, prendersi il più possibile dei voti grillini in libera uscita (anche attraverso il meccanismo del voto disgiunto, come in effetti è accaduto) e, soprattutto, dare nuove motivazioni al popolo storico della sinistra affinché riscoprisse il gusto della partecipazione e dell’impegno.
Su quest’ultimo punto, bisogna riconoscere che un aiuto obiettivo gli è venuto dal movimento cosiddetto delle ‘sardine’: grazie all’intuizione quasi goliardica in chiave anti-salviniana di quattro ragazzi bolognesi, da subito ben sostenuta dalla macchina politico-propagandistica della sinistra, si è creato un clima di mobilitazione e d’attivismo che ha riempito le piazze emiliano-romagnole e che per contagio ha investito anche altre parti d’Italia. Il Pd se ne è giovato, il M5S ne è stato svuotato nella misura in cui il sardinismo s’è rivelato una versione soft e beneducata del grillismo.
Ma diamo anche al singolo Bonaccini quel che gli spetta. Innanzitutto, l’essere considerato trasversalmente un buon amministratore ha sicuramente giocato a suo favore. Quando poi ha fiutato l’aria per lui pericolosa ha fatto una scelta radicale. Per dirla in soldoni, s’è astutamente e sobriamente “padanizzato”: niente simboli del Partito democratico nella sua propaganda, il verde già leghista scelto come colore della sua campagna elettorale, continui richiami all’orgoglio emiliano e alle radici popolari (il popolarismo è ancora il miglior antidoto al populismo), l’ammissione implicita che sugli immigrati la sinistra ha sbagliato dal momento che “nessun Paese può accogliere chiunque”, la pubblicità a pagamento sul “Secolo d’Italia”, l’abbigliamento informale, sbarazzino e vacanziero, molto “Rimini, Rimini”, che ha esibito spesso nei comizi e negli incontri elettorali. Segno che la politica identitaria tutta giocata sulle appartenenze localistiche esclusive, così come il protagonismo del leader che viene prima del partito e spesso fa tutto da solo, sono carte che oggi non sfrutta solo Salvini: sono il codice della politica contemporanea.
Passata la grande paura, l’errore che il Pd rischia ora di commettere, avendo comunque conseguito un ottimo risultato a dispetto della scissione renziana (è il primo partito in Emilia Romagna col 34,6%), è scambiare una vittoria tonificante per una vittoria risolutiva. Va bene che lo si sostenga nelle dichiarazioni ufficiali, l’importante è non pensarlo sul serio. Negli ultimi due anni e mezzo, su quattordici elezioni regionali (comprese le ultime), il centrodestra ha vinto ben 12 volte: invertire questo trend profondo non è facile, specie se il governo in carica continuerà a dare l’impressione di essere solo un governo in carica.
Stavolta ha funzionato l’appello alle armi in chiave allarmistica contro il ‘barbaro’ xenofobo e un po’ fascista che stava per mettere le mani su una terra di antiche e perduranti memorie partigiane. Ma attenzione, nel prossimo futuro, alla “sardinizzazione” del Pd e all’idea che dalla mobilitazione antifascista permanente possano nascere una politica economica per lo sviluppo o le riforme sociali di cui l’Italia ha bisogno. La piazza politica colorata e un po’ esaltata ha fatto la sua parte, da domani toccherà alla politica fatta dai partiti – a meno di non voler sposare anche a sinistra la contro-democrazia diretta grillina proprio nella fase in cui il grillismo sta drammaticamente implodendo a causa delle sue implacabili contraddizioni.
Quanto a Salvini, che prendendosi l’Emilia Romagna avrebbe avuto sotto la sua guida tutta l’Italia che produce, la sconfitta della sua candidata Borgonzoni dovrebbe fargli capire che i referendum su una persona stimolano simpatie ma cumulano anche le antipatie di tutti gli avversari, spingendoli a mettersi insieme. Il solo contro tutti alla fine sfianca chi lo promuove e soprattutto stanca chi è chiamato a scegliere un uomo piuttosto che un progetto di governo. Si ripeterà l’errore ai prossimi appuntamenti amministrativi in Toscana e nelle Marche? D’ora in avanti, il suo problema sarà mostrarsi all’altezza del 30% dei consensi che possiede a livello nazionale: troppi per continuare a fare il capopopolo che si limita ad aizzare i bassi istinti, come ha talvolta fatto anche durante questa campagna elettorale (l’episodio del citofono, per essere stato un ministro degli interni, è stato a dir poco infelice).
Naturalmente, questo non significa – come qualcuno ha frettolosamente dichiarato – che sia iniziata la parabola discendente della Lega e del suo capo. Più semplicemente Salvini ha visto ridimensionate certe sue aspettative e ambizioni. Non può, ripetiamo, fare sempre tutto da solo (dando così l’impressione di non avere dietro di sé un gruppo dirigente all’altezza). Deve accettare l’idea che il centrodestra sia un’alleanza plurale dove tutti sono necessari per vincere (la crescita significativa di Fratelli d’Italia in entrambe le regioni e il ritorno di fiamma berlusconiano in Calabria lo confermano). Soprattutto deve rendersi credibile come possibile uomo di governo, a meno che la sua scelta, anche per ragioni caratteriali, non sia quella dell’oppositore a vita.
Si diceva dell’eccesso di aspettative circa i possibili riflessi sul governo di questo voto amministrativo. La vittoria di Bonaccini nell’immediato lo stabilizza, nonostante il risultato al limite del tracollo ma largamente atteso del M5S (che anche in Calabria è andato malissimo: col 7,3% andato al suo candidato nemmeno entrerà nel Consiglio regionale): un partito senza linea politica, poco organizzato sul territorio e con troppi capi che decidono non può che perdere elettori a rotta di collo. Ciò naturalmente potrà comportare qualche fibrillazione dentro l’esecutivo, dal momento che il Pd zingarettiano alzerà certamente la posta nei rapporti con l’alleato grillino, il quale tuttavia, per non sparire, non potrà che continuare a sostenerlo. Anche se resta l’incognita di tutti quei parlamentari da oggi ancora più allo sbando e preoccupati per il loro futuro: a quali manovre potranno prestarsi?
La verità è che la vita di questo governo è legata soprattutto ad altri fattori: la mano protettrice su di esso dell’Europa e del Quirinale, la mancanza di alternative reali, l’istinto di autoconservazione di deputati e senatori e, sul piano più tecnico, il referendum primaverile sulla riduzione dei parlamentari che impedisce un rapido scioglimento della legislatura. Il problema semmai per questo governo è un altro: che stabilità faccia rima con immobilità. Le forze oggi in maggioranza hanno in testa un disegno politico o un programma da realizzare? Ci sarà la tanto attesa verifica (magari accompagnata da un rimpasto nel governo e dall’allargamento della base parlamentare che lo sostiene) o si continuerà con la politica del galleggiamento?
Da questo voto, più che stravolgimenti radicali nell’immediato, sembrano insomma nascere diverse sfide speculari e convergenti in vista di un voto che non sarà imminente e che si svolgerà con un nuovo meccanismo di voto proporzionale (mentre si registra un progressivo ritorno al classico schema destra-sinistra). Il centrodestra – che Salvini non è riuscito ad egemonizzare – dovrà ridefinire la sua offerta politica e rivedere i tempi della sua battaglia. I grillini, per non evaporare del tutto, dovranno superare le divisioni interne che li hanno sin qui lacerati, trasformarsi in una realtà organizzativa solida e rendersi nuovamente riconoscibile agli occhi dei loro storici sostenitori. Il Pd dovrà decidere se inseguire il movimentismo delle sardine o integrare il vitalismo di queste ultime in un nuovo progetto politico che non si limiti all’ennesimo cambio di nome. Infine, il governo guidato da Conte dovrà farci capire cosa intende fare e mostrarci cosa sa fare.
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