di Danilo Breschi
Affrontare da profani della filosofia un libro di Severino è come scalare senza guide un vulcano altissimo e dai pendii ripidi, arrivare in cima e guardare giù in fondo dentro il cratere. La sensazione che si prova è di vertigine, unita alla paura che il magma salga in superficie, poiché nasce il sospetto che il vulcano sia ancora in attività. Ma il rischio vero è sprofondare in quello sguardo gettato nell’abisso,
di Danilo Breschi

Affrontare da profani della filosofia un libro di Severino è come scalare senza guide un vulcano altissimo e dai pendii ripidi, arrivare in cima e guardare giù in fondo dentro il cratere. La sensazione che si prova è di vertigine, unita alla paura che il magma salga in superficie, poiché nasce il sospetto che il vulcano sia ancora in attività. Ma il rischio vero è sprofondare in quello sguardo gettato nell’abisso, a cui conduce, con un ritmo monotono e via via più calzante, ogni pagina del filosofo bresciano, il cui stile di pensiero ricorda la malìa del Bolero di Ravel, ad un tempo seducente ed estenuante.

Con questa avvertenza, consiglio vivamente di leggere Severino. Cercando di indurvi a farlo, prendo le mosse dagli assunti fondamentali del suo ragionamento. In primo luogo, non possiamo non dirci tutti abitanti dell’Occidente. La civiltà occidentale è oggi una forma di dominio concreto esercitato dal capitalismo dei paesi più ricchi, dotati di una tecnologia così avanzata e pervasiva da tenere tanto subordinati quanto distanti i paesi più poveri e meno industrialmente sviluppati. E chi è iper-industrializzato e tecnologicamente avanzato è ormai occidentalizzato nell’anima, anche se ha occhi a mandorla. La tecnica, o, ancor meglio, la tecno-scienza, intesa come potenza trasformatrice, è così indispensabile per lo scopo primario del capitalismo, ovvero il perseguimento del profitto, che tale strumento, la tecnica, da mezzo va pian piano tramutandosi in fine, peraltro esclusivo. Il signore pensa di servirsi del servo, ma questi gli diventa così insostituibile che alla fine è il servo a servirsi di lui.

Siamo dunque dentro una logica netta e spietata del mezzo e del fine. Ma tale logica rimanda, a sua volta, ad un’altra logica, affermatasi un paio di millenni addietro o poco più, e solo di recente emersa alla piena luce del sole. Nel corso della storia dell’Occidente è diventato sempre più esplicito ciò che era implicito nel pensiero degli antichi greci: l’uomo è volontà di potenza. Che cosa significa?

Nell’Antigone Sofocle usa due parole, separate da un punto e virgola, per definire l’uomo: pantopóros áporos. Severino traduce e commenta così: l’uomo è colui che è “capace di percorrere tutte le vie” (pantopóros), e, insieme, colui che è “privo di una via”, “senza scampo” (áporos), poiché la sua sorte è segnata. Si da dove va a finire qualsiasi suo percorso: nella morte, in quel “nulla che lo attende”, come avverte il coro della tragedia sofoclea. In sintesi: l’uomo, e con lui tutte le cose di questo mondo, sono finite, effimere e transitorie. Davanti a noi c’è il nulla, così come alle nostre spalle, e ciò significa affermare che il divenire, inteso come uscita dal nulla e rientro nel nulla, è l’unica certezza che possediamo e ci possiede. È l’evidenza suprema, ciò che non si può negare né contestare, salvo cadere nell’assurdo. Chi mai contesterebbe il fatto che tutto nasce e perisce, e che il passato non è più, così come il futuro non è ancora? Solo un pazzo lo farebbe, e Severino non teme di passare per tale.

Non lo teme, anche perché lui rovescia la questione. Non è lui ad essere folle, ma chiunque si dica convinto che nulla sia eterno, se non il niente da cui veniamo e verso cui andiamo. Ma è proprio questa la suprema follia dell’Occidente, ovvero la sua fede nel nichilismo, inscritta sin dai primi passi, o quasi, della riflessione filosofica che ha nutrito tale civiltà. Questa è la tendenza fondamentale del nostro tempo, e contro di essa occorre affermare la «verità dell’eternità di ogni ente – di ogni cosa, gesto, istante, sfumatura, situazione. Al di fuori del nichilismo il sopraggiungere dell’ente è il comparire e lo sparire dell’eterno. […] Anche il più irrilevante e umbratile degli enti è eterno, come eterna è la stessa follia estrema del nichilismo. […] E tuttavia è possibile che l’Occidente tramonti ed entri nell’apparire un sentiero diverso da quello lungo il quale l’Occidente cammina» (La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, Milano 1988, p. 185).

Immerso nel tempo che scorre e divora, l’uomo occidentale è spinto ad agire, a trovare rimedi a una angoscia che nasce dalla contraddizione tra le sue aspirazioni, illimitate, e la sua condizione, limitata. L’ambizione suprema sarebbe quella di farsi Dio, e l’arte, la filosofia, la letteratura e persino la politica ci hanno fornito sufficiente testimonianza di una tale superba pretesa, sempre ricorrente. La tecnica di cui parla Severino è qualcosa che va al di là dell’insieme di strumenti ed espedienti che l’uomo ha inventato ed escogitato al fine di dominare la natura e persino i suoi simili. La tecnica è anche, e prima di tutto, «forza dominatrice guidata dalla ragione» (Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 1998, p. 71). È, in altre parole, l’uomo stesso così come concepito dalla cultura greca. Sulla scorta degli studi del grande grecista Mario Untersteiner (di cui quest’anno ricorre il 120° anniversario della nascita), Severino ci ha ricordato come la celebre sentenza di Protagora, «l’uomo è misura (métron) di tutte le cose», racchiuda il senso ultimo della forma mentis occidentale, trasmessa fino a noi. La parola métron «indica qui innanzitutto il “dominare”, e si traduce: “l’uomo è dominatore di tutte le esperienze (giacché le cose di cui possiamo parlare e in cui possiamo vivere sono quelle della nostra esperienza)”» (ibid.).

Per lungo tempo tutto questo lo si è continuato a pensare come perfettamente compatibile, anzi come doverosamente subordinato ad una di quelle verità assolute che hanno costituito nei secoli la tradizione occidentale (l’Essere di Platone, il Dio dei cristiani, la Storia dei filosofi otto-novecenteschi, ecc.). L’agire dell’uomo è stato imbrigliato, ricondotto al perseguimento di scopi di volta in volta indicati dal sistema di verità dominante. Ma l’errore iniziale persiste, e cioè pensare che le cose, che oggi sono, ieri non sono state e domani non saranno più.

Molte delle considerazioni svolte da Severino prendono le mosse dall’assunto secondo cui «il significato delle parole è il mondo» (ivi, p. 213), ed è pertanto su di esso che occorre esercitare la nostra riflessione. Nel tentativo di seguire il discorso severiniano frequente è la sensazione che ci manchino la sintassi e perfino il vocabolario. Le parole “destino” ed “eterno” ci paiono letteralmente impensabili. Se ne può dare una definizione, ma il nostro pensiero di occidentali, con le categorie culturalmente preformate di cui è imbevuto (dove la cultura è l’Occidente marchiato dall’origine greca), non sa aprire uno spazio su cui gettare uno sguardo illuminante, rischiarante. L’occhio resta chiuso e la teoria (non a caso il greco theorós indica “colui che dà uno sguardo”) non potrà che essere cieca. Una domanda va rivolta a Severino, assieme ai più sinceri e ammirati auguri per i suoi 90 anni di autentica vita filosofica, una delle più elevate della più recente storia europea: saremo mai davvero in grado di pensare e di comprendere una storia definita come il sopraggiungere degli eterni nel cerchio dell’apparire, piuttosto che come mutamento e divenire? Solo lui può riuscire a pensare un tale pensiero? Com’è che non è lui a dire (dirci) la verità delle cose, ma è la verità stessa che parla per lui, si rivela a lui tramite il pensiero?

Mi verrebbe da chiosare, seguendo il filo del ragionamento, che è nel pensiero l’essere eterno che cerchiamo. Ci ossessiona la sua ricerca perché ci parla e quasi mai ci diamo quel giusto silenzio con cui provare a captare da dove provenga la voce.

Rileggo queste pagine, che a seguire vi offro, omaggiando Severino con alcuni suoi piccoli doni fra i tanti che ci ha elargito in questi decenni, e mi viene da pensare che per via di ragionamento filosofico egli sia giunto, o aspiri, alla persuasione di una fede, per cui vita e morte sono solo passaggi e il nostro piccolo io non conta, e che ben altro meriti il nostro stupore e ci debba riempire di gioia. Un pensiero, il mio, di cui sicuramente Severino giudicherà la fallacia, perché non così, obietterà, va impostato il ragionamento nei confronti della sua filosofia. Eppure ho anch’io le mie persuasioni. E resto affascinato dalla tenacia con cui ingaggia da sempre un corpo a corpo in cui lavora ai fianchi l’idea, fattasi convinzione irrefutabile, che nulla sia eterno e che tutto debba necessariamente perire. E va detto che Severino non ha mai abbassato la guardia, anzi, l’ha se possibile ancora più alzata con l’incalzare dell’età. Persino la resurrezione dei morti è ridivenuta possibilità, anzi destino, nella sua filosofia. E perciò gli auguro un buon compleanno, ringraziandolo per un pensiero che induce a scalare vette ardite, mozzafiato, e a guardare dentro vulcani mai spenti.

«“Attendono gli uomini, quando sian morti, cose che essi non sperano né suppongono” (Eraclito, fr. 27). Ma sono così attesi perché già da vivi, e da sempre, sono ciò che non sperano e non suppongono di essere. L’immenso da cui sono attesi è la “Gloria”» (La Gloria, Adelphi, Milano 2001, p. 18).

«Tutto l’eterno che può manifestarsi nel cerchio finito dell’apparire del Destino – e dunque la Terra stessa nella sua totalità – è già da sempre tracciato nella Gioia, ossia nel Tutto Eterno, che è il toglimento eterno di ogni contraddizione» (ivi, p. 29).

«Ogni uomo è l’apparire eterno degli eterni. […] La morte dell’individuo è l’apparire della sapienza che in lui si manifesta da sempre e della destinazione della Terra alla gioia. Non m’importa, qui, dire che cosa penso io della morte. Che cosa può valere il mio modo di pensare? Che cosa ne pensa ciascuno di noi è un’opinione, una fede. C’è però qualcosa che non soggiace al nostro modo di pensare ed è la verità, la quale dice che tutto è eterno – uomini, istanti, esperienze, le cose grandi e le cose piccole, i gesti e le stratificazioni della nostra storia – e ciò che appare come divenire – l’uscire e il tornare nel nulla – non può essere la creazione e l’annientamento delle cose, ma il sopraggiungere mai compiuto degli eterni nell’eterna luce dell’uomo. Siamo re che si credono mendicanti. L’uomo è eterno, ma crede alla follia che lo dice mortale e quindi mendica la propria salvezza dal baratro del niente presso un Dio oppure, come accade ora, presso la scienza» (Siamo re che si credono mendicanti, in Che cosa vuol dire morire, a cura di Daniela Monti, Einaudi, 2010, p. 139).

«L’esperienza, qui, è come il cielo. Se chiedessimo al cielo che ne è del sole quando a sera tramonta e non si fa più vedere, che cosa risponderebbe il cielo – che, ripeto, qui corrisponde all’esperienza (a quell’esperienza senza di cui non c’è scienza)? Che ne è del sole quando tramonta e non si fa più vedere? Forse che il cielo potrebbe mostrarci che ne è del sole quando esce dalla sua volta? No, il cielo può parlare di ciò che in esso si mostra ma non di ciò che si è portato al di fuori del suo regno. Di esso il cielo non può più dir nulla. E così avviene nell’esperienza, che corrisponde al cielo. Crediamo che la morte sia annientamento. Ma l’esperienza tace intorno alla sorte di ciò che è uscito da essa. […] È per questo che se l’esperienza tace intorno ai morti, i morti possono ritornare. E anzi […] è necessario che ritornino» (da E. Severino, A. Scola, Il morire tra ragione e fede, a cura di I. Testoni e G. Goggi, Marcianum Press, Venezia 2014, pp. 33-34).

«La morte, intesa come l’evento dove chi muore esce non solo dall’esperienza altrui, ma anche dalla propria e se ne va nel nulla, è qualcosa di abissalmente diverso dalla morte dove chi muore è un eterno che esce dall’esperienza altrui, essendo peraltro destinato a ritornarvi. Quando i popoli agissero (propriamente “agiranno”) sulla terra conoscendo la verità di questo secondo senso della morte e quindi sapendo che la loro volontà di potenza è illusione (perché anche i gesti più umili e irrilevanti sono violenza che si presume capace di far essere o non essere le cose), quello sarebbe (propriamente: “sarà”) il tempo di una vita essenzialmente diversa da quella resa possibile dalle sapienze dell’Occidente, che, invece, pur nella varietà delle loro scelte, sono concordi nel credere che il mondo e l’uomo vengano dal loro iniziale esser nulla e vi ritornino» (ivi, pp. 75-76; corsivo nel testo).

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