di Alessandro Campi
L’onda fanatica e integralista che si sta abbattendo su alcuni paesi occidentali, sulla scia delle proteste anti-razziste nate negli Stati Uniti dopo la brutale uccisione di Mark Floyd, va ormai oltre gli isterismi censori che di solito si imputano al “politicamente corretto”: un movimento di idee nato nei campus americani con l’obiettivo di combattere le discriminazioni contro le minoranze e divenuto una gabbia linguistico-culturale che ormai rischia di soffocare il dibattitto pubblico e la stessa ricerca accademica.
di Alessandro Campi

L’onda fanatica e integralista che si sta abbattendo su alcuni paesi occidentali, sulla scia delle proteste anti-razziste nate negli Stati Uniti dopo la brutale uccisione di Mark Floyd, va ormai oltre gli isterismi censori che di solito si imputano al “politicamente corretto”: un movimento di idee nato nei campus americani con l’obiettivo di combattere le discriminazioni contro le minoranze e divenuto una gabbia linguistico-culturale che ormai rischia di soffocare il dibattitto pubblico e la stessa ricerca accademica.

Dall’igiene delle parole, con esiti d’un conformismo spesso grottesco a dispetto delle buone intenzioni iniziali (il rispetto delle differenze e la difesa del multiculturalismo attraverso il bando dei termini potenzialmente offensivi), siamo ormai scivolati nell’iconoclastia (l’abbattimento o rimozione di statue e lapidi, l’oltraggio ai monumenti e la censura alle opere d’arte) e nella violenza come strumento con cui minoranze radicali attive intendono imporre la propria visione ideologica all’intera società: non il riconoscimento degli errori del passato (da spiegare e contestualizzare senza giustificarli), ma la sua cancellazione simbolica e materiale.

Nulla di nuovo, beninteso. Nel corso del Novecento – e andando indietro nei secoli – s’è visto decisamente di peggio. Di vincitori in armi, di capi politici violenti o di masse infuriate che hanno cercato di cancellare ogni traccia (anche fisica) dei loro nemici privati e pubblici la storia è piena. Il problema è che questa forma odierna di damnatio memoriae, indirizzata contro personalità del passato accusate oggi d’aver praticato o avallato politiche discriminatorie su base razziale quando vigevano altri sistemi di valore e sensibilità, nasce nel cuore del mondo per definizione libero, pluralistico e tollerante. La discriminazione delle idee, la censura e la riscrittura del passato sono pratiche correnti nei regimi autocratici e totalitari. Ma come si spiega questo scoppio di settarismo travestito da lotta per i diritti e da indignazione civile nelle democrazie più avanzate?

Probabilmente stanno concorrendo molti fattori. Il più banale, e generale, è il clima sociale rabbioso che la pandemia ha creato su scala globale. Il lungo lockdown è stato rivelatore, tra le altre cose, delle grandi ineguaglianze presenti anche nelle società più sviluppate (che in Paesi come gli Stati Uniti sono al contempo economiche e razziali), cui si sono aggiunte le paure per la recessione già cominciata. Dalle grandi emergenze storiche si esce sempre attraverso una fase di caos e convulsioni, nella quale probabilmente siamo appena entrati.

Nemmeno è da trascurare l’aspetto, anch’esso generico, di rivolta generazionale. Sennonché alla ricorrente lotta dei figli contro i padri naturali s’è aggiunta stavolta quella contro gli antenati e i padri simbolici: tutti colpevoli, come in una catena genealogica che non ammette innocenti, del presente senza futuro che le classi più giovani sentono di vivere per la prima volta nella storia del mondo. In questo caso, più che di rabbia sociale si tratta di disperazione individuale e di gruppo.

Ma questo è solo lo sfondo del nuovo oscurantismo occidentale, così come il video che riprendeva la morte di un afro-americano per mano di poliziotti bianchi non è stato altro che l’innesco occasionale delle ragioni che più direttamente alimentano questa sorta di movimento luddista applicato alla (propria) storia.

Ad esempio, la frustrazione politica che attanaglia i movimenti della sinistra radicale o antagonista dacché hanno preso consapevolezza di aver fallito il loro obiettivo generale: cambiare lo stato delle cose, a partire dai rapporti sociali ed economici iniqui creati da un capitalismo che hanno sempre detto di voler abbattere o riformare drasticamente. Nella sua permutazione finanziaria e iper-tecnologica, il capitalismo globale ha però dimostrato di essere una forza storica inarrestabile, capace di inglobare e di piegare alle sue logiche anche chi lo contesta ed è costretto, per farlo, ad utilizzare gli strumenti che esso stesso gli fornisce governandoli dall’alto e sempre secondo logiche di profitto (a partire dai social).

Nella mentalità pseudo-rivoluzionaria di molti attivisti, l’impossibilità di cambiare il presente (ovvero il fallimento di tutti i tentativi fatti sinora) sembra aver trovato una compensazione, politica e psicologica, nell’attacco simbolico al passato. Invece di prendersela con Zuckerberg o Bezos, ci si accanisce sulla statua di Churchill o Montanelli. È un rivoluzionarismo che non potendo costruire il “mondo nuovo” (a quello hanno pensato Microsoft, Apple, Amazon e Facebook) prova a riscrivere o cancellare il “mondo vecchio”.

C’è poi un altro fattore, tragicamente paradossale: le democrazie liberali, sulla base di una perversa osmosi tutta da spiegare, sembrano aver inconsapevolmente introiettato alcuni dei tratti peggiori dei modelli politici che hanno storicamente combattuto. Dai sistemi totalitari viene ad esempio quella concezione pedagogica della politica e della storia che rischia di sconfinare, ove perseguita, nell’indottrinamento dall’alto e nella censura delle idee sgradite al potere: che nelle democrazie odierne sta diventando soprattutto quello anonimo di un’opinione pubblica che in realtà spesso riflette non l’opinione generale, ma l’attivismo di alcune minoranze organizzate particolarmente aggressive e mediaticamente ben supportate. Dai regimi fondamentalisti pseudo-religiosi viene invece una visione della convivenza civile che in certe società democratiche tende a basarsi sempre più sui divieti per legge, sull’interdetto sociale, sul conformismo dei valori, sulla codifica pubblica dei costumi, dei comportamenti e del linguaggio, sull’esistenza di una morale pubblica obbligatoria o egemone alla quale uniformarsi come singoli.

Molto gioca anche, nella moda odierna di dare del criminale genocida a Cristoforo Colombo, non tanto l’ignoranza obiettiva del giovane rivoltoso acculturatosi attraverso la Rete, quanto il rifiuto in sé della storia come forma di conoscenza (in passato non ha niente da insegnarci) e come orizzonte temporale (il presente è l’unica dimensione che riusciamo a padroneggiare mentalmente). Rifiuto che si accompagna, nel mondo cosiddetto occidentale, alla stanchezza della storia, tipica di tutte le civiltà decadenti che sentono di aver esaurito la loro spinta propulsiva, e ad un odio di sé penitenziale che nasce non da un’assunzione di responsabilità, che per essere seria richiederebbe un vaglio critico del passato e una sua conoscenza analitica, ma dal desiderio di liberarsi da ogni peso chiedendo scusa, inginocchiandosi e chinando il capo. La storia – che come diceva Gramsci “è una unità nel tempo, per cui il presente contiene tutto il passato e del passato si realizza nel presente ciò che è essenziale­” – è per definizione un contenitore di fatti ed eventi controversi, ambigui e laceranti che evidentemente non si ha più la voglia di affrontare: più semplice condannarla e ripudiarla secondo criteri morali o sulla base di interessi politici contingenti. L’auto-flagellazione e la denuncia pubblica sono del resto più semplici (e, a quanto pare, mediaticamente più efficaci) di una rilettura critica del passato.

Ma cosa si rischia se quest’ondata di furore, giustificata dal desiderio di costruire una società più inclusiva e armonica, dovesse continuare? Secondo l’esperienza non c’è azione che non susciti una reazione. E se la prima è violenta e discriminatoria, lo sarà anche la seconda. Così come un’identità forzatamente negata ne provoca l’irrigidimento. Visto che va di moda parlare del rischio di un nuovo fascismo, ricordiamo che quello originario mussoliniano si costruì una base di massa e un vasto consenso quando si trasformò, da aristocrazia delle trincee e da movimento eversivo qual era, in anti-bolscevismo militante, in catalizzatore della grande e piccola borghesia intimorite dallo spettro della rivoluzione comunista. Quando si teme una forma di oppressione, nel contesto odierno quella che in nome della “giustizia razziale” finisce per vedere in ogni uomo bianco un oppressore chiamato a vergognarsi del suo passato, il pericolo è che si finisca per aderire, per auto-difesa, ad una di segno opposto. Dalla “giustizia razziale” alla “guerra razziale”, coi movimenti d’estrema destra che già si mobilitano, il passo potrebbe essere tragicamente breve.

*Editoriale apparso su “Il Messaggero” (Roma) e “Il Mattino” (Napoli) del 12 giugno 2020

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