di Angelica Stramazzi

E’ da mesi ormai che si sente parlare di riforma della legge elettorale, della volontà, agitata da più parti, di mandare in soffitta il tanto vituperato “Porcellum” e di dar vita ad un meccanismo che consenta anzitutto al cittadino di scegliere il proprio rappresentante politico, dopo anni in cui non si è fatto altro che mettere in evidenza i rischi di protrarre nel tempo un Parlamento formato da nominati e non già da eletti. La discussione circa tale tema ha subìto diversi stop ed altrettante accelerazioni, senza tuttavia portare ad un esito chiaro e definitivo, con il risultato che ci si continua a dividere su quale sia il miglior sistema da introdurre, se quello francese, spagnolo o tedesco.

In questo scenario si è ora inserita un’altra questione non meno importante della prima – quella, giustappunto, relativa alla riforma della legge elettorale: che ne sarà del centrodestra italiano se Silvio Berlusconi decidesse di sciogliere la riserva e optasse per una sua non candidatura a Palazzo Chigi. Il segretario Angelino Alfano, designato dal Cavaliere quale suo delfino e dunque successore, sembra aver abdicato a tale ruolo, preferendo piuttosto ricucire il rapporto, ormai interrotto da diverso tempo, con l’Udc di Pierferdinando Casini. Così, mentre l’ex Presidente del Consiglio continua a prendere tempo, prolungando non si sa fino a quando la lunga riflessione iniziata più di un anno fa, quelli che sembrano mal sopportare questa situazione di stallo sono gli ex An, ossia i Gasparri, La Russa e Meloni che, fin dalla nascita del Popolo della Libertà, si erano detti contrari alla genesi di un partito che, in un certo qual modo, potesse vanificare gli sforzi fatti fino a quel momento per uscire dal ghetto in cui era stata da sempre relegata la destra post missina. Una destra, vale la pena ricordarlo, che non è mai riuscita definitivamente ad emanciparsi da un eterno passato, una sorta di eredità per taluni versi un po’ troppo ingombrante ma in larga parte considerata una sorta di rifugio sicuro da coloro che si sono sempre sentiti messi ai margini dalla politica italiana.

Che cosa prospetterebbero ora costoro per rilanciare il Popolo della Libertà e per garantire un futuro ad un partito che non è mai stato tale? Ipotizzerebbero una scissione dalla componente azzurra proveniente da Forza Italia, con l’intento o di federarsi con essa alle prossime elezioni o addirittura di dar vita ad un soggetto nuovo in grado di recuperare i valori di quella destra di cui è sempre stato difficile fornire una definizione esatta e certa. Se così fosse, il Pdl smarrirebbe la ragione per cui (non) è venuto al mondo, ossia riunire sotto un’unica insegna il popolo dei moderati e del centrodestra italiano. Ma a venir meno sarebbe anche il tentativo di rivitalizzare una creatura zoppicante, amorfa, dall’identità confusa e a tratti sbiadita. Insomma, non avrebbe più senso continuare a parlare di un futuro del centrodestra, in quanto lo stesso centrodestra sarebbe totalmente da rifondare su basi nuove, su principi in grado di selezionare il merito e la qualità delle classi dirigenti a tutti i livelli territoriali di governo, dai comuni fino al Parlamento.

Coloro che invece restano spiazzati dalla possibile fuoriuscita degli ex An dal Pdl, dimenticano che quello che fu definito “il partito del Predellino” non ha mai generato la fusione “a caldo” tra le sue due componenti – ex An ed ex Fi -, restando alla fin fine un soggetto con più teste, più voci, un’unica guida e nessuna capacità di sintesi. Se quindi gli eredi della tradizione post missina dovessero salutare definitivamente la componente azzurra, stupore e meraviglia sarebbero due sensazioni prive di reale oggettività e di assoluta concretezza.

 

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