di Antonio Mastino

Mentre il mondo si ferma davanti alle Presidenziali americane, un altro possibile avvicendamento politico passa in qualche maniera sottotraccia, pur rischiando di condizionare addirittura maggiormente le dinamiche mondiali in campo economico e politico. Tale avvicendamento politico riguarda la Cina, l’ultima arrivata nel club delle superpotenze (se ancora non consideriamo tale l’India) che si appresta a sostituire per scadenza del mandato il premier Wen Jiabao e il Segretario Generale del Partito Comunista Hu Jintao con Li Keqiang e Xi Jinping. La nuova elite cinese si troverà ad affrontare nei prossimi anni una situazione estremamente complicata sia sotto l’aspetto economico sia sotto l’aspetto sociale (direttamente collegato) e politico. Sotto l’aspetto economico, il “boom” che siamo stati abituati a conoscere negli ultimi anni è certamente molto più contenuto. Le grandi imprese internazionali stanno cominciando a delocalizzare altrove, dal momento che la crescita esponenziale dei salari ha portato, per esempio, il costo di un operaio specializzato all’85% rispetto a quello di un corrispondente Occidentale; nel mentre si registra un grosso calo delle esportazioni (anche a causa della crisi internazionale) a cui non corrisponde un’adeguata crescita del mercato interno. La produzione invenduta, dunque, incide sulla crescita del PIL (che è stata del 9.2% nel 2011) che è in costante calo e probabilmente prossima a lambire la soglia del 7% che negli anni è stata definita come “minima” per evitare l’esplosione dei conflitti sociali. Questi, definiti dal governo di Pechino con il termine molto generico di “conflitti di massa” in realtà sono in costante crescita e, a guardare i dati, rappresentano già un altro “boom”: si è passati infatti dai circa 9 mila dei primi anni ’90 ai 180 mila del 2011. Questa crescita esponenziale degli incidenti di massa, nella cui categoria vi sono indistintamente rivolte contadine (famosa quella del villaggio di Wukan di fine 2011, nel Sud del paese), azioni dei movimenti indipendentisti nelle aree periferiche e reati di opinione, incidono pesantemente sulla spesa pubblica. Il budget di sicurezza, infatti, supera quello delle Forze Armate, nonostante si parli del più grande investitore mondiale nel settore dopo gli Stati Uniti.

Una strada perseguita dalle autorità di Pechino per contrastare questo rallentamento della crescita è quello della ricerca di nuove fonti energetiche per soddisfare la crescente domanda sia industriale che urbana. Ciò si esplica da un lato nella sempre più massiccia presenza in Africa sub-sahariana (vedasi il ruolo politico della Cina nel conflitto tra Sudan e Sud Sudan), che tutt’ora è una sorta di “Far West” del petrolio e del gas, e, dall’altro, in una condotta catalogabile come imperialista nel Mar Cinese Meridionale. Entrambe le strade però comportano delle difficoltà, poiché, se nel caso africano bisogna sempre rapportarsi con una realtà che fa ancora enorme fatica a stabilizzarsi nelle forme di legittimità statuale che siamo abituati a conoscere, nel caso “interno” del Mar Cinese Meridionale si parla del centro nevralgico delle strategie mondiali del prossimo futuro. Negli Stati Uniti, quando si parla di “America’s Pacific century” (con lo spostamento graduale del grosso delle sue Forze dispiegate nell’Asia Centrale al Sud-Est asiatico e all’Oceania), si fa riferimento esplicitamente al contenimento strategico della Cina sul Mar Cinese Meridionale, ricchissimo di risorse energetiche. Pechino, infatti, lo reclama interamente come sua Zona Economica Esclusiva, a discapito di tutti gli altri Stati rivieraschi. Gli ultimi casi della Scarborough Shoal (con le Filippine) e delle Senkaku (col Giappone) ne danno chiara testimonianza.

A livello di politica interna, invece, l’amministrazione comunista paga, oltre il già citato calo della crescita, una sempre più crescente corruzione del Partito Comunista che, coi suoi 80 milioni di iscritti, rappresenta poco più del 6% della popolazione (piuttosto poco per un regime ancora totalitario). Il combinato disposto di queste due componenti ha portato ad una spaccatura trasversale nel partito in termini ideologici tra la corrente ora al potere (Wen ora e Xi a seguito) e quella neo-maoista, il cui personaggio più rappresentativo, Bo Xilai, è al centro di uno scandalo che molto probabilmente segnerà la sua fine politica. L’ex amatissimo governatore della più ricca regione della Cina, quella di Chongqing, è stato infatti indirettamente coinvolto nella controversa morte dell’imprenditore britannico Neil Heywood, la cui colpevole sarebbe la moglie Gu Kailai. Questo “processo del secolo” le cui dinamiche fanno pensare a una sorta di resa dei conti interna al Partito sta monopolizzando l’attenzione, poiché Bo Xilai quasi certamente sarebbe diventato membro del Comitato Centrale del Politburo, divenendo fondamentalmente un intoccabile. La frattura fra le due componenti è stata esplicitata poco prima dello scandalo quando Bo entrò pesantemente in polemica con Wen Jiabao sulla linea politica da adottare in Cina, richiedendo un ritorno agli ideali maoisti di origine e auspicando una nuova “Rivoluzione Culturale”. A quest’auspicio, corrispose la risposta di Wen Jiabao che vi oppose la necessità di “riforme”, intese dall’ala maoista come troppo occidentali e quindi corrotte.

Mentre ci si prepara alla nuova gestione di Xi Jinping e di Li Keqiang, dunque, la Cina è di fronte a un bivio politico che segnerà probabilmente la sua stessa esistenza: se deciderà di rinnovarsi perseguendo quel lento processo evolutivo iniziato da Deng Xiaoping nel ’79, rendendo più plurale e meno centralizzato il suo sistema politico, potrà evitare crisi ben più gravi di quella odierna; altrimenti, con lo Stato dominato dal Partito Comunista, le pressioni esterne e il rischio stagnazione potrebbero causare un’implosione del sistema e alimentare ulteriormente le spinte centrifughe in costante aumento.

 

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)