di Luca Marfé
Alzare i toni, sbattere i pugni sul tavolo anche quando non è necessario, mostrare i muscoli di un’America orgogliosa fino ad ostentarli, cercare di impressionare un mondo già di per sé instabile, gettare benzina sul fuoco di ogni singolo dossier di politica estera.
Questa, in tre righe, la sintesi estrema di ciò che potrebbe essere definito “il metodo Trump”.
Un improvvisare che, tweet dopo tweet, è diventato oramai una scienza esatta.
di Luca Marfé

Alzare i toni, sbattere i pugni sul tavolo anche quando non è necessario, mostrare i muscoli di un’America orgogliosa fino ad ostentarli, cercare di impressionare un mondo già di per sé instabile, gettare benzina sul fuoco di ogni singolo dossier di politica estera.

Questa, in tre righe, la sintesi estrema di ciò che potrebbe essere definito “il metodo Trump”.

Un improvvisare che, tweet dopo tweet, è diventato oramai una scienza esatta.

Prima Kim Jong-un e la Corea del Nord, poi Nicolás Maduro e il Venezuela, ora (di nuovo) Hassan Rouhani e l’Iran.

«Il mio bottone nucleare è più grande del tuo», rivolto al dittatore di Pyongyang per scaldare i cuori dei conservatori e soprattutto degli scalpitanti vertici militari a stelle e strisce. Lo spettro socialista da agitare ad arte come il peggiore degli orizzonti possibile perché utile anche in chiave interna, ottimo per defenestrare i rivali democratici da qui al 2020 (lèggere alla voce Bernie Sanders). Le manovre mediorientali di portaerei e cacciabombardieri in un Golfo Persico in cui la diplomazia è storicamente fragile, specie quando c’è di mezzo Washington.

La narrativa è sempre la stessa: «Gli Stati Uniti non vogliono la guerra, ma…»

In quel “ma”, in quella minaccia assai poco velata, c’è tutto Donald Trump.

C’è un presidente, cioè, che vive della necessità di celebrare la grandezza dell’America a scapito degli altri. C’è un desiderio, quasi spasmodico, di appoggiarsi al cattivo di turno per giustificare i propri eccessi, addirittura la propria ragion d’essere.

La Casa Bianca ha bisogno di un uomo forte, di un Commander in Chief vecchio stampo, perché lo scacchiere internazionale è pieno zeppo di insidie e dunque lo richiede.

L’aspetto incredibile è che un percorso che nasce come un discorso di comodo rischia persino di condurre da qualche parte, di funzionare, di trasformarsi in qualcosa di giusto.

A giudicare dagli errori dell’amministrazione Obama, accusata da una vasta platea bipartisan di essere stata troppo mansueta nei confronti di certi antagonisti, Trump infatti potrebbe a suo modo avere ragione.

Le maniere sono sbagliate, ma lo sono di proposito in quanto volte a spaventare.

E, fino ad ora, nonostante il fare guerrafondaio, non c’è stata nessuna guerra.

Altra differenza, non di poco conto, con chi lo ha preceduto.

L’estetica da bullo paga, insomma.

E Trump, indisponente e sicuro di sé, continua a gettare benzina sul fuoco del mondo.

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