di Damiano Palano
Nel novembre 1931 Leo Strauss, allora trentaduenne allievo di Ernst Cassirer, fece visita a Carl Schmitt per chiedergli una lettera di referenza. Negli anni precedenti, dopo aver conseguito la laurea, Strauss aveva lavorato presso l’Accademia di Studi sull’Ebraismo, che però, a causa di difficoltà economiche, si trovava ora costretta a licenziare i collaboratori. L’intenzione del giovane studioso era dunque di domandare alla Fondazione Rockfeller un contributo finanziario per proseguire i propri studi su Thomas Hobbes. E una raccomandazione di Schmitt – che era allora uno dei più illustri giuristi della Repubblica di Weimar – poteva senz’altro rafforzare la candidatura. Un mese dopo – come attestano i diari di Schmitt – Strauss inviò inoltre al più anziano e già affermato studioso un dattiloscritto in cui esponeva il proprio progetto di ricerca. La relazione stesa da Schmitt probabilmente facilitò il successo della proposta di Strauss, che in effetti a marzo poté comunicare al proprio sostenitore l’esito positivo della domanda. Il rapporto tra i due studiosi avrebbe però conosciuto l’episodio culminante alcuni mesi dopo. Nel giugno del 1932 Strauss inviò infatti a Schmitt un denso dattiloscritto dedicato a una lettura critica del suo celebre saggio sul Concetto di ‘politico’, che era apparso originariamente nel 1927 ma che quell’anno era stato ripubblicato in una nuova edizione, rivista e ampliata. Il giurista rimase davvero colpito dalle osservazioni del giovane studioso. Nelle edizioni successive del suo lavoro, richiamò infatti in diversi punti le obiezioni di Strauss, accogliendone peraltro le indicazioni. E – come dimostrano i carteggi – fece in modo che la lunga recensione fosse tempestivamente pubblicata sul prestigioso «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», la medesima rivista in cui il saggio era originariamente comparso. In seguito, Strauss scrisse ancora due volte al giurista, l’ultima volta – ormai nel luglio 1933 – da Parigi, dove si era trasferito grazie alla borsa ottenuta. Schmitt non rispose mai a quell’ultima lettera. E tra i due studiosi non ci fu da allora più alcun rapporto. Il clima politico era d’altronde radicalmente mutato. E soprattutto erano cambiate le posizioni di Schmitt, che si apprestava ormai a vivere la famigerata breve esperienza di ‘giurista di corte’ del nuovo regime nazionalsocialista. Un’esperienza che probabilmente l’ebreo Strauss – di lì a poco trasferitosi negli Stati Uniti – non poté dimenticare.
Anche se i due non ebbero mai più alcun incontro, probabilmente non cessò mai il loro dialogo ‘nascosto’. È questa almeno la tesi che sostiene da tempo Heinrich Meier, docente all’Università di Monaco e curatore dell’edizione tedesca delle opere di Strauss. Nel suo Carl Schmitt e Leo Strauss (Cantagalli) mostrava infatti come le critiche del giovane filosofo avessero indotto l’autore del Concetto di ‘politico’ a rivedere le proprie posizioni originarie. Nella Lezione di Carl Schmitt. Quattro capitoli sulla distinzione tra Teologia politica e Filosofia politica, da poco tradotto in italiano (Cantagalli, pp. 343, euro 22.00), torna più ampiamente su questa tesi, cercandone una verifica nell’intera riflessione dello studioso di Plettenberg. In particolare, mostra come la provocazione di Strauss indusse Schmitt a rivedere la propria valutazione di Hobbes. Secondo Strauss, l’autore del Leviatano doveva essere paradossalmente considerato come il fondatore ‘illiberale’ del liberalismo. E Schmitt – che in precedenza aveva accolto senza riserve la lezione hobbesiana – si rese conto di non poterne recepire per intero la visione. Tutta la riflessione schmittiana aveva infatti preso le mosse dall’indignazione contro l’«epoca della sicurezza», contro la hybris degli uomini che mettono il calcolo dei propri interessi al posto della provvidenza divina. Ma, promettendo sicurezza in cambio di libertà, di fatto l’operazione di Hobbes aveva invece innescato proprio quella ‘depoliticizzazione’ che il liberalismo avrebbe portato a compimento.
La lettura di Meier si sofferma anche su un altro aspetto importante. A suo avviso, nel ‘dialogo nascosto’ con Strauss, Schmitt fu indotto almeno in parte a esplicitare le premesse ‘teologiche’ della propria riflessione. Sezionando l’intera opera schmittiana, Meier sostiene così che la Teologia politica per Schmitt non fu semplicemente una chiave per cogliere la struttura dei concetti politici. La Teologia politica coincise per lui anche con una visione della politica saldamente radicata nella fede nella verità rivelata. E in questo si distingueva radicalmente dalla Filosofia politica, rivolta invece a rispondere alla questione del giusto solo sulla base della «saggezza umana». Anche la concezione che riconduce il ‘politico’ alla distinzione tra ‘amico’ e ‘nemico’ avrebbe allora come fondamento il dogma del peccato originale. Per non impegnarsi in una discussione teologica, secondo Meier Schmitt non esplicitò però mai le più profonde matrici del proprio pensiero. La sua autentica Teologia politica può così solo essere ‘intuita’ a partire da passaggi occasionali (peraltro dal significato non sempre univoco). Ed è probabilmente anche per questa ambiguità che – nonostante l’interpretazione di Meier risulti suggestiva, e in molti casi davvero convincente – il ‘mistero’ di Schmitt è destinato a rimanere senza soluzione, avvolto in una coltre impenetrabile di allusioni, occultamenti, giustificazioni.
* Questa recensione al libro di Heinrich Meier, La Lezione di Carl Schmitt. Quattro capitoli sulla distinzione tra Teologia politica e Filosofia politica (Cantagalli, pp. 343, euro 22.00) è apparsa su “Avvenire” il 16 novembre 2018.
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