Geminello Preterossi, Teologia politica e diritto, Laterza, Roma-Bari, 2022, pp. 295
di Davide Ragnolini
Il termine “teologia politica” è un’endiadi filosoficamente pregnante e sfidante. In primo luogo perché, come spiegava Hobbes, il termine Theologia è talvolta “riferito all’oggetto”, ovvero Dio, e talvolta “riferito al parlante” (Lev., XXXVI), cioè all’uomo che parla di Dio e della dottrina religiosa. In secondo luogo perché essendo qualificata ed intesa come “politica”, la Theologia si interseca qui necessariamente con la dimensione dell’immanenza, cioè l’orizzonte temporale e umano; altrimenti sarebbe un termine autosufficiente, scevro dal bisogno normativo del Politikós.
Carl Schmitt, come è noto, con questa espressione designò l’analogia formale tra i concetti giuridici moderni e i concetti teologici, indicando una genealogia originaria dei dispositivi normativi umani a partire dalla similitudine con le dottrine racchiuse nella Theologia, intesa cioè come oggetto speculativo specifico.
Ne sarebbe seguito un fortunato “canone” filosofico novecentesco, di cui il presente volume non intende essere né un mero resoconto storiografico, né uno studio monografico sul giurista tedesco che lo ha reso celebre. Semmai, si tratta di un tentativo di ricostruzione teoretica della “genealogia del contemporaneo” (p. 278), ovvero una proposta di rilettura di tradizioni, concetti e strumenti della filosofia politica e delle sue aporie alla luce del metodo analogico dischiuso dalla teologia politica.
Il presupposto da cui muove l’ipotesi di fondo di Preterossi (nella foto, in basso) è duplice: da un lato, sotto il profilo teoretico, vi è la “insuperabilità” (p. 3), ovvero l’inestinguibilità della trascendenza all’interno della filosofia politica, o del pensiero politico in senso lato (come insegnava Leo Strauss, in fondo, il pensiero politico è più ampio della filosofia politica!); dall’altro, sotto il profilo storico, le circostanze di un “‘interregno’ post-liberale” (p. 169), definito comunamente – da Lyotard in avanti – come condizione post-moderna.
Una condizione che l’autore elabora come una sorta di patogenesi delle certezze ideologiche novecentesche, ma nel quadro di una nuova genealogia di “formazioni reattive teologico-politiche” (p. 287). La sfida teoretica è quindi leggere la cosiddetta “anti-politica” contemporanea, nell’età dei nuovi emergenzialismi, della tecnopolitica, della “spoliticizzazione liberale” (p. 257), come una manifestazione della reazione popolare ancorata al paradigma teologico-politico: un’epifania del bisogno trascendente di cambiamento che è periodicamente cristallizzato nei paradigmi della teologia politica. E che, oggi, sarebbe registrato nelle forme di politica attiva dal basso, le quali rispondono reattivamente rispetto allo status quo – e conformemente al paradigma teologico-politico – ad un fondamentale “deficit di eccedenza politica diretta” (p. 279). Non basta, quindi, studiare il populismo come un epifenomeno dell’economia in fase regressiva. Occorre guardare alle istanze di rivendicazione teorica dei populismi come ad una teologia politica di ritorno; per dirla con l’autore: “una sorta di paradossale teologia politica ‘post-teologico politica’, che si nutre di soggettività atomistiche e di istanze singolari di trascendenza, generate al contempo dal fallimento dell’auto-ordinamento dell’immanenza […] e dalla delegittimazione dei corpi intermedi e della rappresentanza politica perseguita nel neoliberalismo” (p. 201).
Certo, in molti autori novecenteschi il tema del trascendimento della società capitalistica è stato elaborato attingendo alla proprietà di alterità insito nelle rappresentazioni del trascendente: il “principio speranza” di Bloch, il “totalmente altro” di Horkheimer, il “grande rifiuto” di Marcuse, testimoniano della vitalità delle risorse culturali, per così dire non pienamente immanentizzate, quindi della loro potenziale produttività normativa e rivoluzionaria rispetto alla società unidimensionale del tardo-capitalismo. Ma l’innesto teorico originale dell’autore consiste non solo nell’ancorare saldamente al paradigma teologico-politico i tentativi contemporanei di “andare simbolicamente al di là dell’ordine esistente” (p. 151), bensì anche di vedere, in filigrana, nuove forme di teologia-politica contro-egemoniche, cioè altre “rispetto all’egemonia” (172).
Di fatto, nell’excursus storico-teorico presentato nel volume, lo statuto specificamente ‘politico’ della stessa teologia politica risulta oggettivamente ambiguo: da Hobbes a Schmitt, passando per Hegel, la modernità si è costituita come un artificioso equilibrio giuridico tra l’istanza catecontica e conservativa delle forme teologiche tradizionali, e quella escatologica e rivoluzionaria racchiusa nelle promesse e nei contenuti etico-morali del pensiero religioso. In questo senso, la modernità può essere interpretata come una forma di “auto-trascendenza dell’immanenza” (p. 282), cioè come processo di costruzione degli spazi di regolazione ed emancipazione umana (i moderni limes, con i suoi corollari della sovranità esterna e auto-sovranità interna) in continuità con apparati e risorse intellettuali di natura etico-politica precedente. Forse perché l’uomo, moderno o pre-moderno che sia, è e rimane un animale (teologico)politico. E le costruzioni teologico-politiche non servono soltanto a puntellare l’ordine esistente: contrariamente al “legittimismo” (p. 30), che usa il religioso come instrumentum regni del politico, il trascendente come ausilio di ciò che è immanente. È semmai, nella proposta di Preterossi, il trascendente che deve fungere da ausilio di ciò che non è ancora immanente o presente, cioè una società più giusta, più democratica, più politica di quanto appaia nella congiuntura globale contemporanea. Ma, allora, il ricorso alla “supplenza del sacro” (p. 141), sia in termini di continuità conservativa – nelle forme egemoniche di “teologia giuridica” e “teologia economica” diagnosticate dall’autore – sia in termini di “trascendenze emancipative” (p. 65), si fa problematico sotto l’aspetto epistemologico-sociale. Proprio perché la stessa logica neo-liberalismo si riproduce e si nutre attraverso specifiche narrazioni fideistiche – ad esempio, in quella di un ordine giuridico globalmente omogeneo o di un ordoliberismo economico non mutabile – all’uomo non è dato conoscere forme neutrali di teologia politica. Il discrimen, dunque, tra ciò che l’uomo deve accettare e ciò che l’uomo può sperare, diviene difficile da individuare poiché le proiezioni teologico-politiche, di diverso orientamento, sono simultaneamente prodotte da governanti e governati.
In altri termini, ancora, posta la tesi forte dell’inestinguibilità della teologia-politica, ovvero dei residui formali del pensiero teologico in ambito giuridico e politico, il problema della loro veridicità transistorica (legittimità) diverrebbe allora secondario rispetto alla loro validità storica (legittimismo); perché ogni epoca è teologico-politica. Si porrebbe allora il problema, filosoficamente oneroso, di come giustificare su basi non ideologiche il “plusvalore spirituale” (p. 118) insito nella politica, ovvero di come poter sostenere moralmente istanze valoriali e culturali non riconducibili ad una soggettività storica particolarizzata sul piano sociale e politico. Quella “supplenza” del trascendente, allora, diverrebbe non dissimile da quel “sussidio” delle forze intellettuali e morali che, nel gergo della sociologia realista di Gaetano Mosca, rappresenta la “formula politica”, la quale sempre ogni società fa e disfa per governare la metamorfosi della propria egemonia.
Cionondimeno, la teologia politica rimane sul piano ermeneutico un paradigma esplicativo utile per rappresentare la genealogia degli strumenti intellettuali umani, la radice trascendente di molte idee diffuse nel dibattito politico contemporaneo, soltanto apparentemente secolarizzato: ecco che nel decisionismo tecnocratico, nel fondamentalismo dei diritti umani, nelle nuove “guerre giuste” – e forse, nella stessa rappresentazione simbolica della corona regale, curiosamente apparsa perfino in cima agli organigrammi del PNRR – potremmo ravvisare forme di “teologia politica indiretta” (p. 4). Ed è per questo, forse, che ogni filosofo politico, nello sforzo di auto-comprensione della propria vocazione epistemologica, non può non dirsi filosofo teologico-politico.
Lascia un commento