di Alessandro Campi
Quest’oggi il ministro degli Esteri Luigi Di Maio volerà a Tripoli. Sarà l’occasione per rimettere mano al dossier libico con l’Italia finalmente protagonista del gioco diplomatico che dovrebbe portare ad una soluzione politica per la guerra civile in corso ormai dal 2011? L’Italia avanzerà ai diversi contendenti una proposta di mediazione a nome dell’Europa, si limiterà a confermare il suo sostegno unilaterale al governo di Salvezza Nazionale presieduto da Fayez Serraj o proverà a muoversi in autonomia nel caso dovesse profilarsi per la Libia, come molti sostengono e molti temono, uno scenario di tipo siriano basato sull’accordo politico-militare tra Turchia e Russia?
Dopo mesi di passività, inerzia e ondeggianti diplomatici (all’indomani del summit di Palermo del novembre 2018 si era anche pensato di abbandonare Serraj al proprio destino e di assumere una posizione più equidistante tra le parti in lotta), l’attesa per le scelte che si appresta a fare il nostro governo è più che legittima. È ormai evidente che senza una ripresa di iniziativa politica l’Italia si troverà a pagare un prezzo sempre più alto – su diversi fronti: dal controllo dei flussi migratori al mantenimento delle attuali concessioni petrolifere, dalla lotta contro il terrorismo all’approvvigionamento energetico necessario alla nostra economia – per la perdurate instabilità libica.
Negli ultimi tempi la situazione nel Paese nord-africano è e drammaticamente mutata, se si pensa che ancora all’inizio di quest’anno si pensava alla data di possibili elezioni. In primis sul piano politico: le perduranti divisioni europee (determinate in particolare dal velleitarismo della Francia e dal suo malcelato intento di sottrare la Libia alla sfera d’influenza italiana) e il crescente disimpegno americano (frutto più che del neo-isolazionismo ideologico trumpiano del convincimento pragmatico che agli Stati Uniti, ormai energeticamente auto-sufficienti, non convenga più impegnarsi in prima persona nella polveriera mediorientale) sono stati infatti compensati dall’attivismo turco a sostegno di Serraj e dall’interventismo russo al fianco di Khalifa Haftar. Quando si crea un vuoto c’è sempre qualcuno che lo colma.
Quanto all’offensiva militare lanciata appunto da Haftar lo scorso aprile, con l’obiettivo di conquistare Tripoli e di riunificare le diverse province e tribù che componevano la Libia indipendente, non è stata affatto rapida e inarrestabile, almeno sino al recente intervento al suo fianco dei mercenari filo-russi. Ha semmai ottenuto l’effetto paradossale di ricompattare le rissose milizie tripoline intorno alla leadership da sempre evanescente di Serraj. Al tempo stesso, ha dato l’occasione alla Turchia per ergersi a protettore militare del governo che la comunità internazionale continua a ritenere l’unico legittimo senza però che quest’ultima abbia la minima intenzione di supportarlo militarmente in modo diretto.
Al momento la situazione sul campo sembra di stallo, proprio grazie all’annuncio di Erdogan che in caso di assalto finale, sempre che Serraj lo richieda, Ankara è disposta a inviare proprie truppe a suo sostegno. Ma anche in caso di successo militare da parte di Haftar ci si chiede come quest’ultimo, vecchio e malato, possa gestire politicamente il sogno di una Libia unita già realizzato a suo tempo da Gheddafi e oggi inseguito dal suo vecchio generale divenuto in seguito un suo irriducibile oppositore.
La verità, come hanno spiegato più volte gli americani campioni anch’essi di ambiguità e ondeggiamenti (prima hanno sostenuto l’uomo forte della Cirenaica in quanto avversario degli islamisti radicali, sino a incoraggiarne la marcia verso Tripoli con l’obiettivo di sradicare il terrorismo, poi lo hanno mollato perché troppo amico dei russi, sino a chiederne l’arresto come criminale di guerra con passaporto americano), è che viste le forze in campo (interne e internazionali) nessuna vittoria militare può portare ad una soluzione politica stabile. Il che significa che la caduta della Tripolitania più che alla pace porterebbe ad un inasprimento dello scontro intestino e ad una ancora più drammatica frammentazione. Sono troppi gli attori in lotta che agiscono in proprio e spesso su procura di potenze esterne: le decine di milizie tribali che sinora si sono riconosciute nei due governi di Tripoli e Tobruk, quelle dei territori autonomi o città-stato di Misurata e Zintan, le bande criminali che controllano i traffici di droga e di essere umani, le cellule terroristiche legate all’ISIS, i gruppi jihadisti d’ispirazione salafita.
Ci si chiede allora quale possa essere la soluzione in grado di arrestare gli scontri e soddisfare i numerosi contendenti e soprattutto da chi questa soluzione possa essere proposta politicamente, imposta sul piano diplomatico e infine garantita grazie anche alla forza delle armi.
La posizione ufficiale italiana – ribadita dopo l’incontro, svoltosi a margine del recente Consiglio europeo a Bruxelles, tra il premier Giuseppe Conte, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron – è che l’Europa arrivi al più presto ad una posizione comune che porti al cessate il fuoco, alla conciliazione e, in prospettiva, alla stabilizzazione democratica L’occasione potrebbe essere il vertice da convocare a Berlino per il prossimo mese di gennaio. Ma il calendario diplomatico degli ultimi anni non lascia sperare nulla di buono. Sulla Libia il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si è riunito sinora 14 volte senza mai decidere nulla. A poco, se non a soddisfare l’ego propagandistico degli organizzatori, sono anche servite la conferenza parigina sulla Libia del maggio 2018 e quella palermitana del novembre successivo. Ecco perché diversi osservatori ritengono più realistica (e forse persino più efficace ed opportuna, giunti a questo punto) una soluzione politica negoziata tra Turchia e Russia, esattamente secondo il copione già sperimentato in Siria.
Ma cosa dovrebbe fare l’Italia dinnanzi ad un simile scenario diplomatico? Provare a scongiurarlo nel nome dell’unità europea o cercare di svolgervi un ruolo tenuto conto dei suoi irrinunciabili interessi nell’area? Ottenuta la cessazione delle ostilità, preso atto del fatto che nessuno è sufficientemente forte per unificare politicamente la Libia dopo averla pacificata, l’obiettivo di un accordo turco-russo n0n potrebbe che riguardare il riordino in chiave federale del Paese, dunque la sua sostanziale spartizione territoriale sulla base di aree di influenza ben definite e garantite da potenze esterne sul piano politico-militare.
Se questa è la strada, occorre chiedersi se è sensato che l’Italia sacrifichi il proprio ruolo strategico nel Mediterraneo sull’altare di un europeismo che rischia di essere declamatorio e ipocrita. Finché possibile è giusto sperare nella definizione di una posizione europea comune, sapendo però che essa potrebbe non maturare mai, ovvero arrivare quando i nostri interessi in Libia risulteranno irrimediabilmente compromessi. Se Russia e Turchia stanno per accordarsi, è giusto che l’Italia – essendo peraltro l’unico Paese occidentale che ancora dispone di una rappresentanza diplomatica in Libia – provi a inserirsi nella partita avanzando sue specifiche proposte. Sarebbe peraltro una scelta non contro i nostri alleati europei, ma a loro beneficio: un modo per trarli dall’impasse decisionale in cui sono caduti e per riparare agli errori che molti di loro hanno commesso. Di sicuro stare a guardare mentre potenze extra-europee si annettono politicamente la Libia sarebbe una scelta ben peggiore: è questa la scommessa della missione odierna di Di Maio
Per il nostro Paese il 2011 è stato, come si ricorderà, un annus horribilis sul piano della politica internazionale e interna: la caduta e uccisione di Gheddafi dopo una guerra-lampo travestita da intervento umanitario (agosto-ottobre), alla quale il governo dell’epoca si oppose inutilmente, fu seguita dall’estromissione da premier di Berlusconi imposta dall’Europa dopo la tempesta finanziaria abbattutasi sull’economia italiana. In maniera per nulla casuale, la perdita di ruolo internazionale dell’Italia coincise con l’inizio di una lunga stagione d’instabilità politico-istituzionale che dai governi tecnici ci ha portati, per contraccolpo, all’ascesa dei populismi. Per simmetria, una forte ripresa di ruolo diplomatico in Libia, dopo le titubanze e la marginalità sulla scena internazionale di questi anni, potrebbe adesso segnare il ritorno nella sfera interna –lento e all’apparenza impercettibile, ma quanto mai necessario – di una politica capace di difendere, non solo a parole, gli interessi strategico-commerciali dell’Italia e che non si limiti soltanto, come è stato sinora, alla propaganda e alla demagogia.
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