di Federico Donelli
Il voto in Turchia di domenica 24 giugno ha visto la conferma del presidente Erdoğan (52,5%) già al primo turno e la vittoria alle legislative della coalizione composta dal suo partito AKP (42,8%) e dal nazionalista MHP (11,3%) che ottengono la maggioranza assoluta in parlamento. Ad uscire sconfitti sono stati lo storico partito kemalista CHP (22,8%) e il suo candidato Ince (30%), la lady di ferro Akşener (10%) e il partito islamico Saadet (1,7%). Ha retto invece l’HDP (11%), che è riuscito a superare la soglia di sbarramento, e il suo leader Demirtaş (11%), in carcere per offese alla nazione da quasi due anni. Il voto ha istituzionalizzato una situazione di fatto esistente da tempo. I poteri che Erdoğan ha concentrato su di sé negli ultimi anni sono stati consacrati come legittimi grazie alla centralità attribuita dalla Costituzionale alla carica di presidente della Repubblica. Elemento chiave è risultato essere la crescente percezione di vulnerabilità da parte della popolazione turca e la risposta, di stampo sovranista, fornita da Erdoğan a tale fragilità. Tuttavia, prima di analizzare alcuni dei caratteri del sovranismo turco e i fattori che ne hanno favorito il consolidamento, occorre fare una premessa: le elezioni in Turchia si sono svolte mentre nel paese vige lo stato d’emergenza, in vigore da quasi due anni, e la competizione partitica è stata tutt’altro che equa, soprattutto in termini di apparizioni televisive e copertura mediatica. Fatta questa doverosa precisazione, ridurre la vittoria di Erdoğan unicamente ad effetto di attività coercitive nei confronti dell’elettorato turco rischierebbe di limitare e in parte inficiare la comprensione della complessità politica e sociale della Turchia. Solamente discostandosi dalla chiave di lettura predominante, e in parte condivisa da chi scrive, di un paese indirizzato verso una forma di autoritarismo competitivo che molto ricorda le strutture dei principali regimi mediorientali è possibile cogliere diversi aspetti che possono spiegare parte del consenso che Erdoğan ha saputo consolidare attorno a sé. Per farlo occorre partire dalla campagna elettorale di Erdoğan e dell’AKP che è ruotata attorno al concetto di ‘güçlü’, ossia di forza. In questa fase, contrassegnata da pressioni provenienti dall’esterno e dall’interno, il discorso politico imposto dal partito di maggioranza vuole che soltanto una Turchia forte, guidata da un uomo altrettanto forte, un capo dal potere superiore e sovrano (Reis), possa reggere eventuali impatti e garantire stabilità e benessere. La narrazione politica di Erdoğan degli ultimi anni, compresa quella che ha riguardato il referendum costituzionale del 2017, è stata incentrata sull’idea di un paese vulnerabile agli attacchi di nemici reali e presunti, interni ed esterni al paese, da cui la necessità di un presidente forte con pieni poteri esecutivi. La retorica del presidente stesso è mirata a stimolare la diffidenza e il sospetto, tratti sedimentati nella psiche turca, al fine di ricompattare la comunità – come recita il programma dell’AKP – in ‘una patria, uno Stato, una bandiera, una nazione’.
A ben guardare, la figura del leader forte avvicina il caso turco ad una tendenza globale, contraddistinta dall’indebolimento delle democrazie liberali e dal simultaneo rafforzamento delle autarchie per le quali la tutela assoluta della sovranità nazionale è diventata la Stella Polare delle scelte (geo)politiche. L’ondata sovranista, vera e propria scossa tellurica che negli ultimi anni ha investito tanto le democrazie mature (Stati Uniti) quanto quelle di più recente formazione (Ungheria), presenta declinazioni differenti a seconda dei contesti di applicazione ma anche tratti comuni che riportano al rifiuto da una parte e alla proposta di superamento dall’altra non tanto della democrazia tout court, quanto della sua variante liberal-democratica. In nome del rispetto della sovranità nazionale e della stabilità, vengono sacrificati i diritti e le tutele dei cittadini. L’affermarsi di ‘democrazie illiberali’ è un fenomeno in costante evoluzione e che guarda sia al passato che al presente. In particolare, paesi come Russia, Cina e la stessa Turchia, accomunati dalla presenza di leader forti e dall’assenza di contrappesi istituzionali, rappresentano un modello alternativo a cui alcuni guardano con ammirazione. Il fascino illiberale risiede nell’immagine di stabilità ed ordine che questi paesi proiettano verso l’esterno. Apparentemente ordinati, caratterizzati da molto mercato e pochissima democrazia, i regimi illiberali sembrano offrire risposte coerenti ad un Occidente spesso confuso e in preda ad una crescente instabilità politica, economica e sociale. Anche la proposta turca si fonda sulla capacità di conciliare il liberalismo economico con la protezione della nazione e della sua identità culturale che è di stampo conservatore e in cui centrale è l’elemento islamico, a scapito dei principi fondanti dello stato di diritto. A ben guardare il personalismo di Erdoğan e l’apparato ideologico creato intorno alla sua figura, ‘Erdoğanismo’ o ‘Tayyipismo’, assumono sempre più i contorni di un sovranismo islamico: un mix tra la tradizione autocratica kemalista, gli attuali regimi ‘one-man rule’ come Russia e Cina e l’utilizzo dell’elemento religioso come timbro politico identitario nonché come importante collante sociale. Ma c’è di più. Il sovranismo islamico di Erdoğan richiama anche la retorica populista trumpiana. Come Trump, anche il presidente turco promette di rendere nuovamente grande la Turchia come potenza economica e politica globale (vakıt Türkiye vaktı). Non ultimo, Erdoğan aggiunge l’elemento ottomano. Da sempre presente nella narrazione politica AKP, il richiamo all’epoca imperiale ha trovato nuova impulso negli ultimi anni attraverso la produzione statale di serie televisive incentrate sulla vita dei principali personaggi storici ottomani.
A determinare ed alimentare la politica sovranista turca hanno concorso e concorrono tuttora diversi fattori. In particolare è possibile soffermarsi su due di essi che hanno aumentato la percezione di vulnerabilità nell’elettorato turco. Innanzitutto le scelte di politica estera. La decisione di giocare contemporaneamente su più tavoli, senza una strategia comprensiva ma con scelte tattiche dettate dal momento, dall’emergenza o dagli umori di Erdoğan, quest’ultimi condizionati per lo più dai sondaggi, hanno reso la Turchia un ‘gambler’ sullo scacchiere internazionale. La cosiddetta ‘dottrina Erdoğan’ segue un approccio conflittuale in politica estera, simile a quello adottato da Putin, compie azioni preventive, come dimostrano le operazioni militari in Siria, e raccoglie la popolazione dietro di sé in un fervore nazionalistico. Il raffreddamento dei rapporti con l’Occidente, in parte surrogato dalla ritrovata sintonia con la Russia e dai crescenti rapporti economici con la Cina, ha spinto la Turchia ad adottare un approccio multidirezionale. In questo senso, piuttosto che uno slittamento verso est, sarebbe più corretto parlare di un allargamento delle direttrici geopolitiche. A livello regionale, invece, la Turchia riveste un ruolo centrale e attivo nella configurazione tripolare dell’ordine mediorientale. Infatti, insieme al Qatar, costituisce quel terzo polo sunnita moderato che cerca da una parte di limitare l’effetto della politica destabilizzante saudita-salafita, mediante il supporto alle formazioni di islam politico (Fratelli musulmani su tutti) e, dall’altra parte, di tenere pragmaticamente dei canali aperti e concilianti con l’Iran sciita. Le tensioni con diversi alleati storici come gli Stati Uniti e la Germania hanno però alimentato l’idea di isolamento politico, una percezione aumentata in occasione del fallito colpo di stato del 2016 e dei molti dubbi circa un presunto supporto da parte di attori esterni ai golpisti.
Un secondo fattore chiave è dato dalla situazione economica del paese. L’economia turca, nonostante mantenga un tasso di crescita previsto tra il (+2.5) e il (+4%), risulta fragile ed altamente esposta. Il disavanzo delle partite correnti è di 60 miliardi di dollari l’anno e il debito estero di quasi 453 miliardi di dollari. Anche il costo della vita continua a crescere. L’inflazione (+15%) non era mai stata così alta dall’ascesa al potere di Erdoğan nel 2002 e a farne le spese per ora sono le fasce più povere da cui proviene una buona fetta del consenso del presidente. Centrale è la questione dei tassi di interesse. Negli ultimi mesi Erdoğan ha fatto di tutto per non alzarli perché, in caso contrario, avrebbe minato l’agenda di crescita, su cui si basa molto del proprio consenso; mantenere i tassi bassi agevola il prestito di capitali necessari per alimentare i mega-progetti come il nuovo aeroporto o il Kanal İstanbul. I progetti infrastrutturali hanno una duplice ricaduta in termini di popolarità per il presidente: da una parte gli consentono di garantirsi il supporto del settore edilizio, una vera e propria oligarchia economica in Turchia e generando allo stesso tempo posti di lavoro e, dall’altra, danno visibilità al paese, mettendo in mostra le abilità nel settore, alimentando grandeur e patriottismo utili ad assicurare i consensi delle classi popolari. Un’agenda che garantisce risultati tangibili nel breve periodo ma risulta del tutto inefficace nel produrre una crescita solida a medio-lungo termine. Inoltre, essendo una strategia basata sui prestiti e sugli investimenti, obbliga la Turchia a ricorrere al denaro straniero per poter rimborsare il debito. Ne consegue che la dipendenza e l’esposizione finanziaria del paese stanno aumentando in maniera esponenziale.
A questi due fattori, politica estera e politica economica, se ne sommano ulteriori tra cui i quasi quattro milioni di rifugiati siriani, una guerra alle porte in cui l’esercito turco è l’unico, almeno ufficialmente, ad avere ‘boots on the ground’, e una società polarizzata, in cui il tradizionale cleavage conservatori/laici, temporaneamente sostituito dal pro-Erdoğan/anti-Erdoğan della campagna elettorale, è espressione di una più profonda e difficilmente conciliabile frattura centro-periferia. Nei prossimi mesi il sovranismo islamico di Erdoğan dovrà necessariamente affrontare la difficile situazione economica in cui versa il paese. Per farlo servirà riconquistare la fiducia dei mercati finanziari e rendere il ‘sistema Turchia’ maggiormente appetibile. In altre parole, gli investitori stranieri dovranno vedere un netto cambio di rotta nella regressione democratica turca. Al contrario, se Erdoğan dovesse rafforzare il controllo sulla politica monetaria, come annunciato in campagna elettorale, provocando il crollo della lira turca, il suo futuro, e con esso il futuro della Turchia, rischierebbero il collasso. Le speculazioni dei giorni immediatamente successivi al voto riferiscono della volontà presidenziale di non rinnovare lo stato d’emergenza e procedere, entro la fine del 2018, al rilascio di giornalisti, accademici e politici da tempo in carcere. Un ostacolo è però rappresentato dall’alleato di governo MHP. Infatti, la scelta di Erdoğan di correre alle urne è stata premiata solo parzialmente. Le elezioni anticipate hanno permesso di arrestare l’ascesa di Ince e Akşener ma hanno favorito l’MHP a cui sono andate le preferenze anche di molti scontenti dell’AKP. All’interno della coalizione di governo si è creata una dipendenza dell’AKP al partito ultranazionalista che renderà complicati i tentativi di ‘riconciliazione’ con le opposizioni. Inoltre, le classi dirigenti del MHP si sono già espresse negativamente riguardo alla ripresa del processo di pace curdo e sono tradizionalmente riluttanti a migliorare le relazioni con l’Occidente.
Apparso anche su ‘Open Luiss’ del 16 luglio.
Lascia un commento