Lorenzo Zilletti e Salvatore Scuto (a cura di), Ispezioni della terribilità. Leonardo Sciascia e la giustizia, Leo S. Olschki, Firenze, 2022, pp. 282.
di Riccardo Cavallo
Tra i diversi scritti pubblicati di recente sugli innumerevoli risvolti dell’opera di Leonardo Sciascia si segnala soprattutto il volume curato da Zilletti e Scuto, il cui filo conduttore – come recita il sottotitolo – è il tema della giustizia che, nella riflessione di Sciascia incrocia e interseca necessariamente la libertà e la dignità umana. Tant’è che Gesualdo Bufalino ha sostenuto, a ragione, che l’intera opera di Sciascia è un lungo, ininterrotto discorso sulla giustizia e il diritto. Non a caso, quasi da tutti i contributi che si confrontano con alcuni scritti del maestro di Racalmuto tra cui, La strega e il capitano, Il contesto, Porte aperte, Il cavaliere e la morte emerge, come non mai, l’ossessione di Sciascia per la giustizia e il suo terribile volto.
Lo si evince altresì dal significativo apparato iconografico che accompagna il volume, laddove sono pubblicate le incisioni, i disegni, le silografie, le riproduzioni di un quadro scelte o commissionate da Sciascia per le copertine di alcuni suoi testi e che raccontano “l’angosciosa responsabilità del giudicare, la scientifica barbarie degli inquisitori e le sofferenze ed i tormenti degli inquisiti” (Francesco Izzo) e, in modo particolare, dall’Appendice, in cui sono raccolti alcuni brevi ma densi contributi del giornalista politico e giudiziario Massimo Bordin, già direttore di Radio Radicale, e dal titolo inequivocabile Cinque variazioni su Leonardo Sciascia e la giustizia.
Lo stesso incedere della scrittura di Sciascia può definirsi procedurale, nel senso che essa non si limita a raccontare gli accadimenti mantenendosi in superficie ma, attraverso un incessantemente lavoro di scavo che riporta alla luce tesori nascosti, riesce a demistificare innumerevoli luoghi comuni e altrettanti pregiudizi diffusi (Nicolò Zanon). La sua penna affilata e tagliente pertanto, oltre ad evidenziare le carenze e le disfunzioni dell’amministrazione della giustizia (Vito Velluzzi) che egli considera tutt’altro che effimere e contingenti, si misura anche con tematiche che sono tornate prepotentemente d’attualità nel dibattito politico come, per esempio, il c.d. ergastolo ostativo e l’ambito di applicazione del 41bis. Allo stesso modo, nelle pagine di Sciascia non viene mai meno il gusto della provocazione, come allorquando egli sostiene che i giudici, dopo aver superato gli esami e prima di iniziare la propria carriera, dovrebbero trascorrere qualche giorno non nelle normali carceri, bensì in quelle di massima sicurezza, al fine di comprendere la situazione materiale in cui versano i detenuti negli istituti penitenziari italiani.
Ma l’elemento caratterizzante della sua opera è forse l’incessante richiamo al rispetto delle regole, delle leggi dello Stato e soprattutto della Costituzione senza eccezioni di sorta, anche sul versante più scivoloso, come quello dei processi di mafia (Andrea Pugiotto). Anche in queste ipotesi non bisogna mai lasciarsi sedurre dall’eccezionalità della situazione, ma è necessario, pur sempre, ricorrere alle armi del diritto, anche se esse possano, in alcuni casi, risultare spuntate e, dunque, poco efficaci nella repressione di tali abietti crimini. Anzi, la legge deve essere usata dal giurista lato sensu – secondo le parole di Sciascia – analogamente all’utilizzo del bisturi da parte del chirurgo, ovvero con estrema precisione e con altrettanta sicurezza. Per questo Sciascia insiste sulla funzione istituzionale di civiltà del diritto penale (Vincenzo Maiello), come si deduce, tra l’altro, dall’appassionato dialogo tra il Procuratore generale e il piccolo giudice riguardo all’omicidio di Giacomo Matteotti che lascia balenare l’ipotesi che l’implacabile oppositore del fascismo sia stato assassinato non per il suo essere socialista, ma perché in veste di libero docente di diritto penale parlava a nome del diritto in generale e di quello penale in particolare.
In molti altri luoghi della riflessione di Sciascia, ovviamente, persiste tale forma mentis che si sostanzia nella sua ostinata battaglia contro la pena di morte idealmente rappresentata, ancora una volta, dal “piccolo giudice” di Porte aperte richiamato in diversi saggi (Emanuele Fragasso e Pietro Costa) consapevole che la condanna a morte di un soggetto non possa avvenire a cuor leggero e in astratto in base a quanto previsto dalla legge, ma in concreto dopo la sentenza di un giudice. Tanto più al cospetto dell’immenso potere di giudicare riconosciuto al giudice (Paolo Ferrua) che Sciascia ritiene sì terribile ma necessario (Salvatore Scuto) e non manca di citare Salvatore Satta che nel noto saggio Il mistero del processo lapidariamente affermava: “chi uccide non è il legislatore ma il giudice” (Fausto Giunta).
Al di là di questi aspetti, dalle pieghe di questo volume affiora soprattutto la sterminata cultura di Sciascia che, da un lato, si confronta con i classici, da cui spesso riprende interi passaggi senza volutamente citarli e, dall’altro, non disdegna neppure la lettura di testi storico-giuridici che, lo scrittore siciliano, riesce a sottrarre agli scaffali polverosi delle biblioteche come quando affronta le problematiche sottese agli esecrabili rituali dell’eterna inquisizione (Marco Nicola Miletti). Se appare alquanto indubbia l’influenza degli illuministi e, in modo particolare, di Voltaire e del suo celebre Trattato sulla tolleranza, Sciascia va ben oltre quando narra lo sgomento provato da Montaigne di fronte ad alcuni fatali errori giudiziari o quando rimane fortemente impressionato dai fatti di Milano e dalle accuse di Manzoni nella Colonna infame contro la giustizia d’Ancien Régime (Salvatore Silvano Nigro).
Pur tuttavia, il maestro di Racalmuto non può essere ascritto sic et simpliciter nel novero degli illuministi, sia pur, inquieti come si arguisce dalla sua concezione metastorica ed eterna del potere che appare difficilmente riconducibile alla filosofia dei Lumi, la quale, al contrario, insiste proprio sulla capacità di poter trasformare radicalmente le istituzioni e, dunque, lo stesso potere (Pietro Costa). Ma il rischio implicito in cui incorrono, però, alcuni scritti di questo pur affascinante volume, è quello di santificare la figura di Sciascia, allo stesso modo di quella del giudice contro cui si appuntano gli strali della riflessione dello scrittore siciliano. Cosa che sicuramente lo stesso scrittore siciliano, da bastian contrario, mai avrebbe accettato.
Lascia un commento