di Barbara Faccenda*
Federico Prizzi, Cultural Intelligence ed etnografia di guerra, Edizioni Altravista, Roma, 2021, pp. 228 (ISBN-13: 9788899688592)
I conflitti contemporanei, caratterizzati da cambiamenti significativi sia negli attori che nelle dinamiche e nelle logiche di scontro, secondo Federico Prizzi, antropologo e polemologo, necessitano di figure professionali più specifiche in grado di cogliere le sfumature di ciò che accade nei Paesi attraversati dai conflitti.
La struttura del testo si compone di una parte divulgativa in cui si delineano i principali tentativi delle forze armate statunitensi e della NATO di comprensione dell’ambiente operativo attraverso strumenti innovativi che prevedono l’impiego di risorse in ambiti come l’antropologia.
Ne segue la parte in cui l’autore propone la figura dell’etnologo di guerra utile a condurre un’analisi attenta e puntuale delle dinamiche etno-antropologiche caratteristiche della zona attraversata da conflitto. La metodologia di lavoro che segue l’etnografo si basa su aspetti fondamentali che si sviluppano attorno all’immersione partecipante, passando per le interviste, l’interpretazione e la scrittura etnografica.
Ispirato dal testo The study of culture at a distance di Margaret Mead e Rhoda Métreaux (1953), l’autore (in basso, nella foto) suggerisce quanto sia importante un lavoro come quello di un etnografo di guerra anche e soprattutto in supporto alla pianificazione e alla condotta delle operazioni militari.
Una figura dunque già inserita nelle strutture gerarchiche militari, specializzata in studi antropologici, in grado di fornire alle forze armate uno strumento in più, completo, per comprendere l’ambiente operativo e poter contribuire all’efficacia e all’adempimento degli obiettivi della missione.
Un testo per addetti ai lavori, che mette in luce, la complessità delle nuove guerre, la peculiarità di ogni ambiente operativo e la sfida che le forze armate devono affrontare nel concepire ed impiegare risorse che siano in grado di comprendere le molteplici sfumature di ciò che accade nei conflitti protratti. L’ultima parte del libro sintetizza proprio questi concetti applicandoli ad un caso studio. L’autore cerca di comprendere come un gruppo estremista religioso violento, come Al Shabaab in Somalia, utilizzi gli strumenti dell’information warfare a suo vantaggio a nocumento dell’intero sistema politico, antropologico della Somalia. Ed è proprio in luoghi come la Somalia, dove il sistema clanico si intreccia con la governance e le spinte estremiste violente, che l’etnografo di guerra potrebbe offrire un significativo contributo all’efficacia di interventi internazionali.
Docente di Peacekeeping e trasformazione dei conflitti, Università di Perugia
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