di Luca Marfé
Una sola grande certezza: a Singapore si è fatta la Storia. Ora, però, a noi analisti il compito di capire, di provare ad interpretare e addirittura ad anticipare, in quale direzione quella stessa Storia e soprattutto i suoi improvvisati protagonisti possano muovere i loro prossimi passi.
Di questo vertice restano principalmente tre cose: tante domande cui corrispondono altrettante incertezze; un possibile nuovo ordine mondiale; un archivio di fotografie, fino a sei mesi fa a dir poco inimmaginabili, che rimarranno impresse nelle memoria di chiunque per un bel po’.
Che poi, considerato l’ego di Donald Trump da una parte e quello di Kim Jong-un dall’altra, è forse ciò che più di ogni altra cosa entrambi i leader desideravano per davvero.
Il tycoon veste di colpo i panni di un uomo saggio e ragionevole, le cui ambizioni Nobel, a fronte di ciò che mai era accaduto negli ultimi settant’anni, iniziano francamente ad essere più che fondate, persino legittime.
Il «supremo comandante» orientale, invece, si scrolla di dosso l’etichetta di dittatore sanguinario e posa grato e sorridente in occasione di una stretta di mano che in qualche modo lo riabilita agli occhi del mondo intero.
I due, insomma, sono riusciti, ciascuno alla propria maniera, a guadagnarsi il centro della scena. E, con Trump ancora stretto nella morsa del Russiagate e con Kim in un vicolo cieco di miseria e sottosviluppo, non possono che beneficiare di questo grande show.
Al di là delle rispettive firme, però, restano sparpagliate sul tavolo una serie di domande cui nella migliore delle ipotesi fanno da contraltare delle risposte molto vaghe.
Quali saranno i tempi e le tappe della denuclearizzazione nordcoreana?
Quand’è che le truppe a stelle e strisce abbandoneranno la penisola così da poter mettere la parola fine ai «war games», ai «giochi di guerra», citati espressamente dal presidente americano?
E ancora, l’aspetto forse più rilevante in assoluto: quali sono le garanzie che fanno da perimetro a questo tavolo?
Considerati i precedenti, e considerata la dialettica cui le due amministrazioni hanno abituato le Nazioni Unite ma anche i rispettivi partner in sede bilaterale, infatti, non ci sarebbe granché da stupirsi se i negoziati precipitassero un’altra volta, magari anche a causa di un banale commento scomposto. Come del resto era già accaduto pochi giorni fa, con un botta e risposta feroce al punto da far gridare alla cancellazione dello stesso summit. Recuperato poi, com’è noto, soltanto in extremis.
C’è da tenere conto, infine, di un’ultima eredità lasciata da questo epocale vertice a due: Singapore coincide con un nuovo ordine mondiale.
Trump ha scientificamente deciso di snobbare i tradizionali alleati occidentali, prima lasciando il G7 con largo anticipo (uno sgarbo senza precedenti), poi affidandone le sorti ad uno stringato “cinguettio”. Poche battute per un tweet che, di fatto, affonda il destino dei “7 Grandi” e che, nell’era della comunicazione veloce, si rivela di per sé più che sufficiente per immaginare un inedito scacchiere internazionale in cui i pezzi che contano sono soltanto tre: Cina, Russia e Stati Uniti. Uno scenario caratterizzato, nella politica e nell’economia, da un’Europa ogni giorno un po’ più piccola, ogni giorno un po’ più lontana.
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