di Alessandro Campi
Le campagne elettorali della Seconda Repubblica – dal 1994 al 2008 – sono state dure e aspre, ma anche coinvolgenti e politicamente appassionanti. Persino divertenti, grazie all’estro creativo di Silvio Berlusconi. Chi non ricorda, per fare un solo esempio, i manifesti coi quali il Cavaliere prometteva “meno tasse per tutti” e sui quali per mesi fioccarono parodie e battute d’ogni tipo (la più celebre, “meno tasse per Totti”)?
Nell’ultimo ventennio gli italiani si sono divisi e insultati. Berlusconiani e antiberlusconiani si sono accusati delle peggiori nefandezze. Ma dietro i toni aggressivi e gli sgambetti all’avversario, peraltro tipici delle democrazie cosiddette maggioritarie, non c’erano solo pulsioni e istinti. C’erano speranze, aspirazioni, programmi, interessi. Che per essere tra di loro divergenti e non sempre componibili finivano per rendere incandescente lo scontro politico.
Dietro gli slogan smaccatamente falsi e le invettive spesso triviali c’era insomma una sostanziosa posta in gioco politica, che giustificava l’animosità dei contendenti: si trattava di scegliere lo schieramento e il leader che ottenendo più consensi e seggi avrebbero guidato per un quinquennio l’Italia e con essi un programma di governo rispetto all’altro.
La campagna elettorale che ci aspetta nella prossima primavera (ma nella quale in realtà siamo già immersi sino al collo, come sta amaramente sperimentando il governo Monti, ridotto quasi all’impotenza dai partiti che invece di sostenerlo in Parlamento pensano ormai soltanto al voto) rischia invece di essere oltremodo conflittuale e polemica, ma rispetto a quelle del passato del tutto priva di contenuti politici reali. Incapace per questo di suscitare negli elettori un qualunque entusiasmo o di proporre a questi ultimi una qualche alternativa o prospettiva politica concretamente perseguibile.
Insomma, ci terremo gli insulti e la tendenza tutta italiana a presentare l’avversario come un farabutto e un nemico del consorzio umano, sentiremo le promesse più altisonanti e inverosimili, vedremo ricorrere partiti e candidati ad ogni sorta di trucco verbale per ingraziarsi gli elettori, ma tutto ciò, oltre a non appassionare più di tanto gli italiani, che come dimostrano i sondaggi sembrano aver raggiunto un livello di disincanto e disgusto senza precedenti, rischia di non produrre nulla di politicamente rilevante.
La convinzione che si è andata radicando nel Paese nell’ultimo anno e mezzo è, infatti, che da questi partiti non bisogna aspettarsi ricette o soluzioni per risolvere la crisi economica o per rimettere in sesto le istituzioni. Le occasioni che hanno avuto per dimostrare di avere idee originali o di saper anteporre l’interesse collettivo a quello particolare le hanno sprecate malamente. Basti pensare alle tante riforme promesse – la riduzione del numero dei parlamentari, la legge anticorruzione, la riforma del finanziamento ai partiti, la nuova legge elettorale – e rimaste sin qui lettera morta.
Ma gli italiani si sono anche convinti, dopo la nascita traumatica dell’esecutivo tecnico e dopo aver visto all’opera Monti, che il percorso della politica italiana, per quel che concerne le scelte che il futuro governo sarà chiamato ad assumere, sia per molti versi prestabilito. Che esso non dipenda cioè dalla volontà dei prossimi governanti, quali che siano, ma dalle decisioni e dagli indirizzi stabiliti in questi mesi dalle istituzioni europee e dalle autorità economiche internazionali, ai quali ci si dovrà scrupolosamente attenersi se si vorrà evitare il fallimento delle finanze pubbliche o la fuoriuscita dell’Italia dall’euro.
Come prendere sul serio la promessa di ridurre le tasse della destra o la promessa di sostenere l’occupazione e le imprese attraverso l’intervento pubblico della sinistra, avendo nel frattempo accettato come Paese vincoli contabili, misure d’intervento finanziario e “paletti” tecnico-giuridici che non ci lasciano alcun margine di manovra dal punto di vista della politica economica? Questo i partiti, anche se non lo dicono pubblicamente, lo sanno benissimo, ed è forse per questo che in vista della campagna elettorale fanno polemiche su questioni inessenziali per la vita dei cittadini, ma che essi sperano possano svegliare l’attenzione, o peggio la curiosità morbosa, di questi ultimi.
Avendo poco o nulla da dire sulle questioni salienti, anche perché nel frattempo si sono inariditi dal punto di vista progettuale e disgregati dal punto di vista organizzativo, ai partiti non rimane – come si vede in questi giorni – che alzare i toni sulle intercettazioni o sulla polemica Stato-mafia, sperando che ciò basti a catturare, per lo meno, i fanatici e gli intransigenti del proprio campo.
Screditati agli occhi dell’opinione pubblica e perciò impauriti dall’onda dell’antipolitica che Grillo ha scelto di cavalcare con assoluta spregiudicatezza, divisi al loro interno da rivalità personali o al massimo da banali tensioni generazionali, troppo deboli per vincere o per aspirare al governo della nazione, il loro problema sarà contenere le perdite e sperare che gli italiani arrabbiati non si rechino al voto in massa. Al tempo stesso, lasciano intravedere ai potenziali elettori divisioni di campo e linee di scontro che dovranno rimangiarsi il giorno dopo la chiusura delle urne, quando la profondità della crisi imporrà loro, con ogni probabilità, di continuare a sostenere col massimo consenso parlamentare possibile un esecutivo tecnico non molto diverso da quello attuale.
Insomma, ci aspetta una campagna elettorale non solo aggressiva, come si capisce da alcuni segnali, ma dai contenuti politici confusi e vaghi, priva di qualunque slancio sul piano dei programmi, alla fine della quale ai partiti che vorranno assumersi la responsabilità di salvare l’Italia dal baratro toccherà fare cose diverse da quel poco che hanno comunque promesso. Mentre a quelli che invece sceglieranno comodamente l’opposizione, non resterà che continuare a sbraitare e urlare.
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