di Alessandro Campi
Rivolta polemicamente contro il governo e le sue politiche (dall’economia all’immigrazione), la manifestazione organizzata a Roma dal Partito democratico domenica scorsa ha perseguito soprattutto obiettivi interni.
Dopo mesi di relativa apatia, seguita allo scacco elettorale del 4 marzo, c’era infatti da trasmettere un segnale d’esistenza in vita: al Paese e ai propri elettori. Non basta dichiararsi opposizione, occorre anche esserlo. E non basta dare pubblicamente battaglia, bisogna anche proporsi quale credibile alternativa a chi governa.
di Alessandro Campi

Rivolta polemicamente contro il governo e le sue politiche (dall’economia all’immigrazione), la manifestazione organizzata a Roma dal Partito democratico domenica scorsa ha perseguito soprattutto obiettivi interni.

Dopo mesi di relativa apatia, seguita allo scacco elettorale del 4 marzo, c’era infatti da trasmettere un segnale d’esistenza in vita: al Paese e ai propri elettori. Non basta dichiararsi opposizione, occorre anche esserlo. E non basta dare pubblicamente battaglia, bisogna anche proporsi quale credibile alternativa a chi governa. La riunione di Piazza del Popolo, al netto delle inevitabili (e inutili) polemiche sul numero effettivo dei partecipanti, è stata un primo passo in questa direzione.

C’era poi da inviare un messaggio unitario ad una base ormai sull’orlo del tracollo nervoso e in polemica sempre più aperta col proprio gruppo dirigente. Ne è uscita in effetti una dichiarazione di tregua tra maggiorenti che, essendosi nel frattempo allungati i tempi del congresso, almeno un po’ dovrebbe durare. Anche se tutti – vertice e base – sanno che il male del Pd non è rappresentato dai personalismi quanto dall’esaurirsi ormai evidente del suo progetto originario. Cui si aggiunge la profonda crisi d’identità dell’intera sinistra occidentale, che ovunque – dopo gli eccessi di modernismo che hanno finito per snaturarla – sta cercando di rigenerarsi riprendendo in forma aggiornata parole d’ordine e temi di battaglia del suo passato più o meno recente.

Proprio in questo quadro andrebbe inserita la discussione, altrimenti stucchevole, sul cambio di nome del Pd. Che non può essere il solito maquillage finalizzato a confondere gli elettori: contenuti (e uomini) vecchi in un contenitore nuovo, secondo una tecnica di cattivo marketing molto praticata dai partiti negli ultimi due decenni. La questione è più radicale, e riguarda contenuti e missione del Pd che Renzi aveva plasmato a sua immagine. Da un lato, sul piano tattico, parliamo dell’accordo con Berlusconi nell’ipotesi della grande coalizione tra riformisti in funzione anti-populista. Dall’altro, sul piano strategico, dello sfondamento verso il centro moderato e del progetto di una riforma costituzionale di stampo decisionista. Un disegno, implicante anche un drastico cambio nella struttura organizzativa del partito e nel suo gruppo dirigente, che è stato azzoppato dal referendum del dicembre 2016 e poi definitivamente azzerato dal risultato delle elezioni politiche del marzo 2018.

Quello che si profila all’orizzonte, cambio di nome e simbolo a parte, è dunque un processo di rinascita o rifondazione, necessariamente doloroso e lungo, che oltre a tenere conto degli scenari radicalmente nuovi che si sono determinati in Italia dovrebbe anche provare a misurarsi con le strade che stanno percorrendo le altre sinistre per uscire dall’impasse in cui sono piombate. Almeno tre, a guardare in giro.

La prima è quella del ritorno alla tradizione più pura: bandiere rosse e orgoglio identitario, lotta di classe alla luce dei nuovi squilibri prodotti dalla globalizzazione e dal neo-capitalismo, azione militante facendo leva sul disagio del mondo giovanile, lotta per i diritti sociali come propedeutici all’affermazione di quelli individuali. Ѐ la strada, solo apparentemente nostalgica, imboccata da Jeremy Corbyn in Gran Bretagna contro la “terza via” blairiana che aveva portato i laburisti ad adagiarsi su una generica forma di neoliberalismo progressista; ma perseguita anche negli Stati Uniti dall’ala più radicale del mondo democratico, quella che ha nell’indomito Bernie Sanders il suo ispiratore. E’ il ritorno al socialismo come antagonista ideologico del capitalismo, a una sinistra arrabbiata e giacobina che ha scelto di intestarsi la rappresentanza degli esclusi e perdenti d’ogni condizione dopo aver troppo civettato con le élites e i vincenti. Un cambiamento di contenuti ma anche di stile: nel senso di una sinistra che torna ad essere verace e popolare, vicina in primis alle classi lavoratrici, dopo aver inseguito (peraltro invano) l’elettorato borghese-moderato.

Una seconda strategia con la quale i democratici italiani potrebbero misurarsi è invece quella che sta portando alcune socialdemocrazie a farsi carico delle paure e dei timori dei cittadini con l’idea di non lasciarne il monopolio e lo sfruttamento elettorale ai populisti di destra. Nella storia europea i partiti della sinistra socialdemocratica (tra i quali può anche essere ascritto il Partito comunista italiano a partire dalla seconda metà degli anni Settanta) sono stati grandi forze d’integrazione sociale e d’inquadramento delle masse. Alle politiche di redistribuzione sociale e alle battaglie sui diritti affiancavano anche una visione dell’ordine sociale basata sul rispetto della legge e delle istituzioni. Non stupisce dunque che i socialdemocratici danesi, per fare un esempio, da qualche tempo abbiano adottato sull’immigrazione un atteggiamento rigoroso ben lontano dalla retorica di stampo umanitario ancora dominante nella sinistra italiana. Non si tratta di spostarsi a destra per acquisire un facile consenso, ma di prendere sul serio i problemi d’integrazione, in primis culturale, prodotti da un’immigrazione che in alcune sue componenti va introducendo nelle società occidentali valori e schemi di comportamenti spesso assai lontani da quelli che una qualunque forza progressista dovrebbe tollerare: si pensi solo al trattamento discriminatorio riservato alle donne e certo non giustificabile nella logica del multiculturalismo e del pluralismo dei valori. Pariamo in questo caso di una sinistra ben radicata nella tradizionale occidentale e senza fole terzomondiste. Che si riscopre per certi versi persino “nazionale” (come spesso è stato il socialismo continentale) invece di attardarsi in un europeismo declamatorio o in un globalismo astratto che i sovranisti in questi anni hanno avuto buon gioco nel demolire.

Una terza strada, suggerita in questo caso dai consensi crescenti di cui attualmente godono i Verdi in Germania, è quella in senso lato movimentista e postmoderna implicante il ritorno da sinistra alle battaglie sull’ambientalismo, sulla qualità della vita e del lavoro, sullo sviluppo sostenibile, contro gli eccessi di consumismo, sugli effetti sociali non sempre positivi dei cambiamenti tecnologici, sui limiti dell’individualismo. Tutti temi che in Italia, nonostante il loro rilievo, sono stati lasciati all’agitazione ideologica dei grillini. Il rischio in questo caso potrebbe essere quello di una sinistra che abbraccia posizioni pauperiste e arcaicizzanti. Sempre meglio, verrebbe da dire, di una sinistra ingenuamente soggiogata dalle prodezze della finanza globalizzata come spesso è parsa quella italiana nella sua corsa a legittimarsi presso ambienti che non facevano parte della sua storica identità.

Per un partito in crisi come il Pd naturalmente non esiste una ricetta facile o che sia esportabile meccanicamente da esperienza forestiere la cui validità peraltro è tutta da verificare. Ma il travaglio politico-culturale che l’aspetta è evidente. La scelta d’un nuovo segretario, quando ciò avverrà, non sarà che il primo passo di un lungo cammino.

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