di Alessandro Campi
Stretta sempre più tra la propaganda sovranista della destra, la retorica europeista della sinistra e le suggestioni ideologiche di stampo terzomondista e anti-occidentale del M5S, l’Italia sta vistosamente arretrando dal ruolo di media potenza che per decenni, pur nel quadro del suo storico sistema di alleanze euro-atlantiche, ha egregiamente svolto sulla scena internazionale a difesa dei suoi interessi preminenti.
Una perdita di ruolo che se non contrastata rischia di condannare il Paese ad una perdurante e strutturale marginalità. Non bisogna essere nazionalisti per temere una retrocessione di status che avrebbe riflessi inevitabilmente negativi non solo sul prestigio come Paese o sull’orgoglio collettivo, ma concretamente anche sulla sicurezza e difesa interna, sul sistema economico-produttivo e sulla nostra capacità ad agire come un attore autonomo all’interno della comunità mondiale.
Nelle ultime tre-quattro settimane, dacché la situazione è andata precipitando prima in Libia, subito dopo nell’area del Golfo Persico, abbiamo purtroppo assistito ad uno spettacolo deprimente. Mentre le regioni libiche sfuggivano sempre più fuori dalla nostra storica area d’influenza e i venti di guerra attizzati in Persia s’avvicinavano ai confini italiani, il massimo che si è riusciti a fare a livello di dibattito pubblico è stato discutere e litigare sulle intenzioni reali dei russi e dei turchi, sulle scelte politico-strategiche degli statunitensi, dei francesi e degli iraniani. Insomma, su ciò che fanno e pensano gli altri Stati coinvolti nell’area. Dalla politica, in particolare, non è venuta invece alcuna risposta alle fondamentali domande che essa dovrebbe porsi in simili frangenti: cosa vuole fattualmente l’Italia, cioè quale obiettivi concreti – al di là dei pronunciamenti di facciata e dei balletti diplomatici, o delle scontate invocazioni alla moderazione, al cessate il fuoco e alla pace – essa si è data nella complessa partita che si sta svolgendo nel Mediterraneo e, più in generale, nel Vicino Oriente? Cosa abbiamo da perdere e cosa eventualmente da guadagnare come Paese? Essendo in corso un conflitto che incide in modo diretto sui nostri interessi politico-economici, da che parte siamo esattamente schierati, attestato che privilegiare lo strumento del dialogo diplomatico e della mediazione non può significare equidistanza tra gli attori o ricerca di un impossibile neutralismo? E se abbiamo degli amici e degli alleati sino a che punto e a quali condizioni siamo disposti a schierarci al loro fianco?
Su questi temi non sembrano avere idee chiare i partiti di opposizione, che pure aspirano ad essere, a partire dalla Lega salviniana, i custodi e difensori ortodossi degli interessi nazionali di un’Italia che sia – come si sente ripetere nei comizi – autenticamente sovrana e padrona del suo destino. Belle parole, magari elettoralmente efficaci, ma che se non declinate in una visione strategica e geopolitica coerente lasciano il tempo che trovano.
Ma il vero problema, in questa complessa congiuntura internazionale, è che soprattutto il governo in carica non sa cosa vuole e non sa come muoversi. Se le opposizioni possono anche permettersi di essere generiche nelle loro esternazioni e al limite irresponsabili, chi ha, per quanto momentaneamente, le leve del comando politico questo lusso non può invece concederselo. Il che significa che dovrebbe possedere, specie sulle questioni di politica estera, una bussola sempre chiara, capace di stimolare comportamenti conseguenti, non contradditori e soprattutto non improvvisati o dettati dall’emotività del momento. In un Paese che in questo momento ha i suoi militari schierati in Libano e in Iraq, dunque in zone di guerra de facto, basta la dichiarazione improvvida di un ministro o un silenzio equivoco per creare gravi danni politici e materiali.
Accade dunque che l’ircocervo giallo-rosso si stia confermando un esecutivo nato non per fare e decidere, dunque per prendere posizione soprattutto quando le circostanze lo impongono, ma per durare nel tempo rimandando a questo fine ogni scelta troppo impegnativa o potenzialmente divisiva tra alleati, o più semplicemente per concludere ad ogni costo la legislatura e per evitare possibili elezioni anticipate.
Un obiettivo politico in negativo che costituisce, per così dire, il difetto di fabbrica della maggioranza parlamentare guidata da Giuseppe Conte. Difetto al quale si sono ben presto sommate altre criticità. La prima e più evidente è la spaccatura per molti versi insanabile che ormai s’è creata all’interno del gruppo dirigente del M5S, riflesso di quella politica e personale che si è prodotta tra lo stesso Conte e Luigi Di Maio e che ha come evidente posta in gioco la futura leadership del movimento grillino. Ma divisioni non meno vistose, dopo la nascita del governo, si sono prodotte anche nel campo della sinistra, dove almeno tre anime (il Pd, i renziani, il gruppo di Liberi e Uguali) convivono in equilibrio precario, tra personalismi sempre pronti ad esplodere e linee politiche spesso divergenti.
Ciò significa che la scommessa di far nascere una coalizione ‘progressista’ più omogenea sul piano dei valori e dei propositi di quella giallo-verde, basata su un meccanico contratto, non ha prodotto l’attesa vincita. Il M5S, in calo di consensi, si è rimangiato presto la svolta governista e moderata e ha semmai radicalizzato la sua piattaforma populista e anti-sistema. Il Pd si è invece proposto come un esecutore sin troppo fedele degli indirizzi politici provenienti da Bruxelles rinunciando ad una sua autonoma azione riformista.
Senza quella sintesi politica o unità d’azione che Conte, attore super partes, avrebbe dovuto garantire, è dunque fatalmente prevalsa la strada dell’inazione, del rinvio (vedi la decisione di rimandare a dopo le elezioni in Emilia-Romagna il voto parlamentare sul caso Gregoretti e sul processo a Salvini) o della mediazione al ribasso finalizzata ad accontentare tutti (come nel caso della proposta di legge elettorale proporzionale che ieri è stata depositata a nome della maggioranza dal presidente grillino della commissione Affari costituzionali). Strada praticabile con facilità, anche se comunque dannosa, nelle questioni domestiche. Strada impervia, pericolosa e dannosissima nelle partite internazionali in cui, volente o nolente, ci si trova direttamente coinvolti.
L’obiezione possibile è che questo governo – che per tenersi in piedi rischia di doversi affidare anch’esso alla solita pattuglia di parlamentari trasformisti spacciati per fautori della stabilità e salvatori della patria – in politica estera una bussola ferma in realtà la possiede e si chiama Europa. Ma, primo, quest’ultima non ha a sua volta una posizione comune né sulla Libia né sulla più recente crisi tra Stati Uniti e Iran (salvo che si debba evitare ad ogni costo lo scontro militare diretto). Secondo, l’appello all’Unione da parte dei governi italiani (compreso quella in carica) quasi sempre risulta un modo comodo per scaricarsi delle proprie responsabilità. Si guarda a Bruxelles, invocando lo spirito di cooperazione e l’impegno a difesa dei comuni valori di libertà, quando non si sa che pesci prendere. Del resto, l’europeismo italico storicamente è stato tanto appassionato quanto compensatorio; un modo cioè per delegare ad un’istanza sovrana superiore competenze e incombenze che la classe politica nazionale riteneva di non poter o saper assolvere.
Quando si ha un governo che non governa, perché non vuole o perché non sa, accade naturalmente che le decisioni importanti, soprattutto quelle nell’area internazionale, le prendano coloro che sanno quel che vogliono e si comportano di conseguenza. La Libia, a dispetto della tardiva frenesia diplomatica di Conte e del suo ministro degli esteri, l’abbiamo sostanzialmente già persa. Come magra consolazione ci resterà solo di non vederla finire nelle mani della Francia.
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