A cura di Alberto Giannoni
Alessandro Campi, professore di Storia delle dottrine politiche nell’Università di Perugia e editorialista del ‘Messaggero’, studioso della destra, lei è favorevole alla intitolazione di una via a Giorgio Almirante? Le sembra una figura che un centrodestra conservatore, italiano ed “europeo”, dovrebbe valorizzare?
La guerra politico-toponomastica non mi ha mai appassionato. L’intitolazione di strade e piazze dovrebbe servire a creare un pantheon storico condiviso, non per accendere divisione antiche o crearne di nuove. Detto questo, vivendo in una regione, l’Umbria, dove abbondano le rotonde e i viali dedicati a Stalin, Togliatti, Tito, Lenin, Ho Chi Minh, Gramsci e Berlinguer, agli eroi dello Sputnik e a Stalingrado, l’ultima cosa che può impressionarmi è una via per Almirante. Anche se preferirei che su di lui venisse piuttosto scritta una seria biografia critica che a trent’anni dalla morte ancora manca.
Cosa ne pensa della contrarietà della senatrice Liliana Segre, che a Verona ha detto: “La mia cittadinanza onoraria è incompatibile con la via Almirante”?
È una posizione personale difficile da contestare, tenuto conto del suo passato. Detto questo ho l’impressione che abbia finito per assumere un ruolo pubblico-mediatico del quale è ormai politicamente prigioniera. Non le sono più concesse le sfumature e i distinguo che su questa delicata materia sarebbero necessari. Anche perché le fonti dell’antisemitismo sono molteplici. C’è quello della destra (che ovviamente non è in sé antisemita), ma si fa male a sottovalutare quello storico e persistente della sinistra. Per non parlare dell’ipocrita silenzio sull’antisemitismo oggi più pericoloso in Europa: quello di matrice islamista.
Il fatto che il marito di Liliana Segre fosse stato candidato nel 1979 a Milano-Pavia, cosa le fa pensare?
Una banalità: che la storia è complessa. Spesso la si racconta male, altrettanto spesso non la si conosce. Un valente storico e giornalista, Gianni Scipione Rossi, ha scritto nel 2003 un libro sul rapporto tra la destra italiana e gli ebrei che se letto con attenzione avrebbe evitato molto delle inutili polemiche di questi giorni. La verità è che la destra italiana ha fatto i conti con la responsabilità delle leggi razziali del ’38 ben prima del mea culpa di Fini con la sua celebre intervista del settembre 2002 al quotidiano israeliano “Ha’aretz”.
Il Msi negli anni di Almirante era un partito post-fascista o – al di là di certe nostalgie e folklori – si stava incamminando verso una destra “normale”?
Il Msi aveva un fondamento nostalgico, ma è stato paradossalmente, proprio perché rappresentava una minoranza in cerca di legittimazione politica e di agilità nelle istituzioni, un partito assai rispettoso del Parlamento e delle regole democratiche.
Almirante e il Msi hanno davvero ripudiato le leggi razziali? In modo convincente?
Almirante fece pubblica autocritica sul suo passato razzista e antisemita nel febbraio 1967, durante una Tribuna politica (e per questo fu attaccato dagli ambienti della destra radicale, a partire dall’ideologo Julius Evola). Sempre in quell’anno, con la guerra dei “sei giorni”, si definì anche la posizione filo-sionista del partito, da allora mai più abbandonata. Israele era percepito come un bastione dell’Occidente anti-comunista. Piaceva alla destra la sua natura di nazione in armi, così come veniva visto con simpatia ideologica il modello comunitario, patriottico e sociale dei kibbutz.
Il Msi era un partito filo-israeliano? C’erano tracce di antisemitismo al suo interno?
Il Msi ha conosciuto una complessa evoluzione, sulla quale hanno influito anche i cambiamenti di scenario geopolitico del secondo dopoguerra. Nasce filo-arabo e anti-colonialista (in funzione anti-britannica) per poi divenire occidentalista, nemico di ogni terzomondismo. Al suo interno era una realtà molto variegata: una minoranza radicale ha certamente coltivato suggestioni antisemite (di matrice cattolico-tradizionaliste o nazi-paganeggianti), ma i suoi vertici politici – Michelini, Almirante, Fini – non hanno mai alimentato sentimenti discriminatori o razzisti.
Non pensa che Liliana Segre potrebbe fare un gesto di dialogo, un riconoscimento, verso questa destra italiana?
Il problema non è rappresentato dalla Segre, ma da coloro che si nascondono dietro la sua figura strumentalizzandola per scopi di battaglia politica. La tesi che si vuole dimostrare è che stia tornando l’antisemitismo come sentimento di massa. E’ la strategia dell’allarme con la quale una sinistra senza idee pensa di uscire dal vicolo cieco elettorale in cui è finita. Ma è una strategia al tempo stesso sbagliata e pericolosa: non porta voti e alimenta il fantasma che si vorrebbe scacciare.
*Intervista apparsa su ‘Il Giornale’ (Milano) del 26 gennaio 2020
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