di Alessandro Campi
Per la politica italiana il 2019 è stato un anno pazzo. Per i grillini, un anno pazzissimo. Finito l’idillio con la Lega hanno fatto un governo col Pd: il partito che odiavano più d’ogni altra cosa. Da critici intransigenti dell’Europa (e dell’euro) ne sono diventati sostenitori pragmaticamente ortodossi. Fautori della decrescita industriale felice, stanno facendo di tutto per salvare le acciaierie di Taranto. Nemici storici del tatticismo parlamentare, ne sono diventati i massimi esperti e praticanti. Teorici della rotazione delle cariche, per evitare la routine corruttiva del potere, hanno scoperto il gusto di mantenerlo nelle stesse mani. Cambiamenti radicali, nei valori e nella pratica, realizzati ogni volta senza dare troppe spiegazioni. E al massimo ratificati col voto, dagli esiti scontati, della piattaforma Roussaeu.
Cambiamenti tuttavia non indolori sul piano politico e dei numeri. Come dimostrano i continui terremoti elettorali che il M5S ha dovuto sopportare da un’elezione all’altra nell’arco dell’ultimo anno: non s’era mai visto un partito perdere così tanti consensi in un tempo relativamente così breve. Milioni di voti catturati alle politiche del marzo 2018 grazie ad un mix propagandistico assai efficace (la promessa di lottare contro la corruzione e i privilegi della casta, di garantire più partecipazione dal basso alla vita democratica e di perseguire generose politiche redistributive a carico dello Stato), ma strada facendo fuggiti verso la destra salviniana, rifluiti nell’astensionismo o mestamente tornati nell’ovile della sinistra.
Di questo passo cosa può rappresentare il 2020 per il movimento fondato da Beppe Grillo? Il fatto che al suo interno siano in molti (tra cui lo stesso guru-padrone genovese) a invocare una sorta di ritorno allo spirito delle origini fa capire quali siano i timori che circolano tra capi, militanti e simpatizzanti: su tutti quello di non essere più percepiti come una forza d’urto contro il sistema, bensì come una parte integrante e poco incidente del medesimo. Superata quanto a dinamismo – anche sul piano mediatico – dalla mobilitazione recente delle sardine, la cui genesi ha ovviamente molte cause, ma in parte può anche essere ricondotta al dissolversi presso larghe fette del mondo giovanile e del popolo di sinistra delle aspettative d’innovazione che il radicalismo politico-verbale grillino aveva ingenerato.
Aspettative che erano state parzialmente frustrate già dalla scelta di fare un governo con la destra leghista. Ma accentuatesi, paradossalmente, dopo la nascita del governo giallo-rosso, che ha messo a nudo l’anima pragmatica, politicante, manovriera e tatticista del M5S: disposto a qualunque ondeggiamento pur di proporsi come perno d’ogni possibile maggioranza parlamentare. Di Maio l’ha rivendicata come la dimostrazione della “centralità” assunta dal suo partito all’interno del sistema politico-istituzionale italiano, ma molti, tra cittadini e osservatori, l’hanno invece percepita come una forma d’opportunismo degna della vecchia politica.
Se a questo s’aggiunge l’impressione che nemmeno l’esperienza di governo sia servita a guarire il mondo grillino da una certa sua inclinazione al dilettantismo e all’improvvisazione (coi suoi ministri che pare si divertano a proporre soluzioni e ricette sconclusionate, velleitarie o semplicemente irrealizzabili) si capisce perché molti elettori – delusi e disillusi – abbiano nel frattempo maturato altre scelte. Anche se è davvero troppo presto per dare il M5S in crisi irreversibile, come qualche analista tende a fare. È infatti destinato a restare ancora ben saldo lo zoccolo duro del grillismo, quello più integralista e arrabbiato, fautore del “piazza pulita” contro chiunque venga considerato un avversario. Quello che ha talmente introiettato la retorica anti-oligarchica e lo spirito giustizialista iniettati a piene mani nella cultura pubblica italiana degli ultimi tre decenni da credere ciecamente a qualunque cosa Grillo dica o faccia; e da considerare quest’ultimo, dovesse anche cambiare idea tutti i giorni, come l’unico possibile redentore di un’Italia ferita dalla corruzione dei potenti e dai soprusi commessi da questi ultimi a danno del popolo. Si tratta, a ben vedere, dello stesso fideismo acritico che per lungo tempo ha guidato un pezzo dell’elettorato berlusconiano, ridottosi al lumicino a misura del tempo che inesorabilmente passava.
Ciò non toglie che il M5S– se anche non dovesse subire conseguenze elettorali negative nell’immediato (avendo nel frattempo perso tutto il perdibile) – sia nel mezzo di un doloroso travaglio, che nasce dall’accumularsi di equivoci e contraddizioni che non sembra in grado di affrontare e risolvere.
Alcuni sono strutturali e strategici e risulta persino noioso doverli richiamare. Un partito che fa la morale al prossimo in materia di finanziamenti alla politica e ai partiti, da proibire a suo giudizio in qualunque forma, pubblici o privati che siano, sino a che punto può chiudere gli occhi sul ruolo (anche economico) svolto da una società privata che detiene nelle sue mani la ragione sociale del movimento e ne condiziona dall’esterno la linea politica? E’ solo malanimo vedere in ciò l’ombra d’un conflitto d’interessi che andrebbe dissipato? Ma lo stesso vale per un altro elemento perdurante di ambiguità e opacità: quello d’una forza politica che predica l’orizzontalità dei processi decisionali, che per essere democratici dovrebbero scaturire da deliberazioni collettive dal basso, e al tempo stesso pratica la verticalità e il gerarchismo più assoluti, con l’uno che decide sempre per tutti.
Altri sono invece di natura tattico-politica. Il più evidente, stando alle cronache di queste settimane, riguarda il ruolo politico che si sta ritagliando il premier Giuseppe Conte. I grillini lo hanno fortemente voluto come garante dell’accordo stretto col Pd in virtù della sua appartenenza de facto al movimento. Salvo scoprire che Conte (sempre più attento al suo personale futuro politico) si considera ormai più vicino a Zingaretti che a Di Maio. Nei giorni scorsi il segretario del Pd ha avuto nei suoi confronti parole d’apprezzamento persino eccessive, che si spiegano solo alla luce d’un disegno politico: puntare su di lui quale aggregatore dell’ala governista e di sinistra del grillismo, soprattutto nel caso dovesse realizzarsi l’annunciata diaspora verso la Lega di alcuni dissidenti del M5S. Nell’immediato l’obiettivo del Pd, che sempre meno sembra fidarsi di Di Maio, è di blindare a livello parlamentare l’attuale maggioranza (magari facendo conto sull’appoggio che potrebbe venire da una pattuglia di fuoriusciti centristi-berlusconiani). In prospettiva, quando prima o poi si tornerà alle urne, l’obiettivo è di avere Conte come alleato con un suo partito personale, come se non bastassero quelli che abbiamo avuto sin qui (anche la Lega ormai è tale).
Tutto ciò porta ad una conclusione ironicamente amara. Il M5S doveva rappresentare il lievito del cambiamento e la politica del futuro. Sembra invece essersi avviluppato ben prima del previsto nelle pratiche tipiche della politica d’antan: personalismi, giravolte tattiche, furbizie trasformistiche, difficoltà organizzative d’ogni tipo, promesse che vanno e vengono, corsa alle poltrone, giochi di potere, lotte di correnti. Più che un tradimento degli ideali, una resa dei conti con la realtà che al M5S, purché la smetta di giocare alla rivoluzione e all’apocalisse a chiacchiere, potrebbe persino fare bene.
*Apparso su “Il Messaggero” (Roma) e “Il Mattino” del 24 dicembre 2o19
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