di Pierre Manent
La nostra epoca è dominata da un’idea-forza che al contempo ci entusiasma e ci turba e paralizza. Quale idea? L’idea dell’umanità. L’idea dell’unità umana, del raggruppamento di tutti gli uomini in un mondo senza frontiere. Essa si declina in termini economici, politici, ecologici ma anche morali e spirituali. Un potente sentimento si è infatti impossessato delle nostre anime fino a scacciare, per così dire, gli altri affetti collettivi. Quale sentimento? Quello del simile, il sentimento immediato dell’umanità de «l’altro uomo». Ha acquisito su di noi una così grande autorità che vorremmo trarre da esso tutte le nostre regole d’azione. I cristiani sono particolarmente aperti a questo sentimento poiché esso sembra condividere molte caratteristiche della carità. Diciamolo, in gran parte dell’opinione comune, cristiana o no, quei due sentimenti tendono a confondersi: non si vedono più sostanziali differenze tra quelle due disposizioni umane. Vi è in ciò una confusione che è molto importante dissipare.
La sola compassione non permette di fondare un ordine giusto
La compassione è un sentimento, una passione per l’appunto, che davanti allo spettacolo della sofferenza altrui ci fa provare immediatamente, fisicamente, che l’altro è il nostro simile. Questo sentimento non fa eccezione di persone, commuove vivamente il cuore del compassionevole e gli detta di andare in soccorso della persona che soffre o che è in pericolo. Suscita l’aiuto reciproco che apportiamo gli uni agli altri. Stende tra noi come una superficie sensibile in cui proviamo la nostra comune umanità. Se non conoscessimo questo sentimento, la vita umana sarebbe ben più crudele di quanto non lo sia e perderebbe buona parte della sua dolcezza.
Questo sentimento così prezioso ha tuttavia due gravi difetti: è abitualmente debole e ampiamente cieco. È debole perché, all’infuori di alcune nature eccezionali, la capacità di simpatia dell’essere umano è necessariamente limitata. È anche cieco nel senso che, se risponde in modo utile e salutare alla situazione che gli si presenta, non basta a guidare l’azione collettiva. Non si può fondare né condurre alcuna comunità con la sola compassione. La costituzione di una comunità politica sostenibile e vitale richiede infatti una panoplia di virtù: coraggio, giustizia, temperanza e prudenza. La compassione non appartiene del resto alle virtù cardinali poiché non è affatto una virtù, ma una passione. Essa può certamente incoraggiare e alimentare delle virtù, ma in se stessa non ne fa propriamente parte. Consideriamo dunque la situazione che ci preoccupa molto in questi tempi, quella delle nostre nazioni che devono far fronte alle migrazioni. Nazioni come le nostre rappresentano, in ciò che hanno di meglio, la concretizzazione di milioni di azioni coraggiose, giuste, temperanti e prudenti. Quando allora si pongono le nazioni dal lato della semplice forza e si riserva ai migranti tutto il vantaggio del diritto, si commette una grande ingiustizia nei confronti delle nazioni. L’aiuto ai nostri simili quando sono in pericolo è un urgente dovere di umanità. Quell’aiuto non include però il dovere di rendere coloro che aiutiamo dei concittadini. Spetta naturalmente alla comunità politica decidere delle condizioni a cui si acquisisce in essa la cittadinanza.
Le esigenze della carità cristiana
Si obietterà che, anche se il mio argomento è plausibile sul piano politico e profano, esso perde la sua pertinenza non appena interviene la carità cristiana che, invece, è chiaramente una virtù ed è persino la virtù culminante dell’uomo e del cristiano. È vero, ma ciò significa per l’appunto che la carità è molto diversa dalla compassione. In cosa risiede questa differenza? La formulerò così. La carità caratterizza non certi atti, ma il tenore di una vita. Un uomo insensibile o persino crudele può avere degli accessi di compassione e agire di conseguenza. Un uomo che non ha la carità non può avere degli accessi o dei momenti di carità, poiché saranno appunto degli accessi o dei momenti di compassione. Secondo l’annuncio cristiano infatti, noi viviamo naturalmente sotto la schiavitù del peccato, sotto il regime dell’orgoglio e della concupiscenza. Questi termini ripugnanti e desueti hanno il merito di manifestare ciò che vorrei qui ricordare, vale a dire che la carità non potrebbe accadere finché non abbiamo rotto in qualche misura con la vita in cui nasciamo e viviamo naturalmente. Ora, noi non passiamo a nostro piacimento dalla schiavitù del peccato alla libertà e alla generosità della carità. Vi è bisogno di un trasformatore che porta il nome, anch’esso ripugnante e desueto, della penitenza. Così la carità, lungi dall’essere un sentimento immediato come la compassione, presuppone l’impegno in un percorso difficile ed esigente che mobilita le pratiche intellettuali, morali e sacramentali proprie del divenire cristiano. La carità comporta una visione della nostra situazione incomparabilmente più complessa, penetrante e prudente di quella che suscita il sentimento di compassione che ha tutta la vivacità, ma anche tutta la parzialità della sua immediatezza. In ogni caso, non mettiamo in pericolo, in nome di una comprensione superficiale di un sentimento superficiale, la legittimità delle nostre vecchie nazioni di marca cristiana in cui, come diceva san Francesco, «si cuoce ogni giorno il pane della cristianità».
(traduzione dal francese di Giulio De Ligio)
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