di Alessandro Campi

090340449-15c5901c-14a9-4e81-bd46-e7d07e0337b3Si può ancora definire il M5S, con l’idea di liquidarlo come inaffidabile e inadatto al governo, un partito semplicemente populista, protestatario e anti-establishment? Tutti ne ricordano gli esordi in Parlamento e nella vita pubblica italiana, dopo lo straordinario exploit alle elezioni politiche del febbraio 2013. La parola d’ordine all’epoca era mantenere la propria purezza e intransigenza: niente apparizioni televisive per i suoi esponenti; nessun dialogo su nessun tema con gli altri partiti; la pretesa utopistica di rendere pubblico, attraverso la rete, ogni proprio atto, compresa la vita interna del movimento; la diffidenza rivolta indiscriminatamente contro chiunque fosse considerato un esponente delle classi dirigenti al potere.

Era un’atteggiamento settario e polemico che rispondeva ad una duplice esigenza. La prima strumentale ed elettoralistica: marcare agli occhi dei cittadini la propria assoluta alterità nei confronti dei partiti tradizionali. La seconda identitaria e autoconservativa: ridurre al minimo i contatti con il mondo esterno era il modo migliore, per un movimento cresciuto in modo tanto tumultuoso e privo ancora di un’organizzazione solida, per evitare di essere infiltrato o condizionato dai poteri consolidati ai quali aveva mosso guerra.

Sono passati quattro anni e molte cose sono cambiate. Quello che appariva come un semplice, anche se massiccio, voto di protesta, dettato dalla rabbia dei cittadini contro una classe politica percepita come inetta e corrotta, è divenuto (come mostrano tutti i sondaggi) un consenso stabile e radicato, sostenuto dal desiderio di rinnovamento radicale della democrazia e della sua prassi che molti italiani evidentemente condividono. Per il M5S votano ormai ceti professionali e ambienti sociali i più diversi, dal Nord al Sud, con una forte e significativa incidenza del mondo giovanile. Grillo, scomparso Gianroberto Casaleggio, ne è ancora il padre-padrone: ma nel frattempo, pur tra dissidi e diaspore, si è costruito un gruppo dirigente e si sono definite, anche sul territorio, chiare gerarchie interne. E anche se continua a restare poco chiaro il ruolo di Casaleggio jr. e delle piattaforme informatiche che quest’ultimo gestisce, che danno talvolta l’impressione di trovarsi dinnanzi a un esperimento politico orwelliano, nel M5S esiste comunque una vivace dialettica di posizioni. Espressione tra l’altro di un elettorato e di una base militante che a loro volta sono molto articolate dal punto di vista degli interessi rappresentati e della provenienza ideologica.

Quello che si registra ormai da qualche tempo è un orientamento dei grillini nel segno di un crescente pragmatismo e di un diverso modo di atteggiarsi nei confronti delle istituzioni e dei propri avversari politici. Se prima il compromesso veniva aborrito, oggi viene considerato una possibilità della politica, quando non una vera necessità. All’intransigenza ideale e ai proclami demagogici si è affiancato il calcolo delle convenienze e un senso dell’opportunismo che in politica non sempre rappresentano un vizio. Alla facile demagogia, la necessità di essere anche persuasivi e convincenti su una base argomentativa razionale. Così come si è ammorbidita la pretesa di un’assoluta trasparenza: forse non solo impossibile da conseguire, ma al dunque non sempre conveniente e utile (in primis per se stessi).

Più in generale è cambiata la loro strategia comunicativa: da un isolamento orgoglioso, nella convinzione che i programmi televisivi di informazione politica fossero trappole da evitare, si è passati ad un atteggiamento più dialogante e disponibile. Anche perché si è capito che se il web è il futuro, la televisione è un presente che non può essere lasciato come mezzo solo nelle mani altrui. I giornalisti sono ancora oggetto di periodici insulti, in quanto accusati di essere megafoni del potere, ma in realtà col mondo dell’informazione ufficiale i grillini intrattengono ormai un dialogo costante e proficuo.

Lo stesso che hanno avviato con i diversi mondi professionali e istituzionali che prima rifuggivano come espressioni di un potere da abbattere. Parlare con associazioni di categoria, banchieri, manager di grandi aziende e alti burocratici dello Stato, per il M5S non è più un tabù. Così come è importante, per un partito che si candida a interpretare il futuro e il cambiamento, avere un’interlocuzione diretta con il mondo tecnico-professionale, senza pregiudizi di natura ideologica: la buona volontà dei singoli militanti non basta a farsi venire buone idee o o per tradurre queste ultime in realtà. Ma forse presto cambierà anche il mantra ideologico sul quale i grillini hanno costruito gran parte della loro fortuna: “uno vale uno”. Magari fra un po’ ci spiegheranno che la vera democrazia non è quella che mette tutti sullo stesso piano, in nome di una generica cittadinanza, ma quella che mette le capacità individuali, adeguatamente valorizzate, al servizio del bene collettivo.

La disponibilità a trattare con il Partito democratico e con Forza Italia una nuova legge elettorale è indubbiamente il segnale più vistoso di questa trasformazione del grillismo, che non denota solo una consapevole strategia di avvicinamento al governo del Paese, dopo anni in cui ci si è presentati come una forza di opposizione radicale al potere, ma un cambiamento anche culturale e mentale: anche un soggetto politico che si considera rivoluzionario deve avere la capacità di includere, di dialogare e di aprirsi al modo esterno, sempre che non voglia condannarsi alla sterilità.

Naturalmente tutti questi cambiamenti, che potrebbero segnare l’inizio di una fase interamente nuova nella vita del M5S, utile anche alla stabilizzazione del sistema politico italiano, vanno osservati con attenzione ma anche con prudenza. Grillo e il M5S, nel loro recente passato, sono stati protagonisti più volte di repentini cambi d’atteggiamento. In alcuni casi dettati dalla convenienza del momento, in altri dalla mancanza di una reale direzione di marcia spacciata per furbizia tattica. Nessuno dunque potrebbe stupirsi se l’accordo sulla legge elettorale venisse improvvisamente messo in discussione. Esiste nel M5S una vena eversiva e contestataria che tradizionalmente inclina più allo sfascio che alla progettualità. Così come è radicato in alcuni tra i suoi esponenti il convincimento che stare all’opposizione sia più redditizio rispetto all’assumersi una qualunque responsabilità decisionale. Dialogo o intransigenza? Voglia di governo o paura del potere? Quale delle due tendenze prevarrà lo vedremo presto.

 

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