di Alessandro Campi
La tentazione di scrivere un elogio di Gheddafi, ora che è miseramente morto ammazzato, è davvero grande. Specie se si considerano il modo con cui è passato a miglior vita e le parole – ipocrite, vigliacche e indecenti – con cui capi di governo e personalità politiche che per anni lo hanno blandito e corteggiato hanno commentato, spesso senza alcuna vergogna o senso della decenza, la sua tragica uscita di scena.
La guerra di Libia è stata un affare ben strano, sul quale ci sarà da riflettere. Ci è stata venduta come un intervento umanitario, ma l’impressione, considerati gli attori in campo, è che si sia trattato di un tardivo conflitto di stampo coloniale, motivato da ragioni d’interesse economico o da calcoli geopolitici nemmeno troppo difficili da fare. La lotta fra potenze europee per l’egemonia sul Mediterraneo è questione antica, con la quale, oltre l’attuale guerra, si potrebbero spiegare molte altre pagine di storia: ivi compreso il terrorismo che insanguinò l’Italia negli anni Settanta e Ottanta.
Ci è stata altresì presentata come una sollevazione popolare, dettata dal desiderio di libertà, ma l’impressione è che si sia trattato di un conflitto civile su base etnico-tribale, destinato a proseguire, con ogni probabilità, anche dopo che gli aerei della Nato saranno tornati definitivamente nelle loro basi.
Quanto ai rivoltosi per una buona causa, cui è andata tutta la nostra simpatia in questi mesi, si scopre ora che si sono macchiati di crimini orrendi durante la loro avanzata verso la Tripolitania, sui quali abbiamo colpevolmente chiuso gli occhi, e che ad animare molti di loro più che la voglia di democrazia sia stato il fanatismo religioso.
Di capolavori politici l’Occidente ne ha realizzato più d’uno nel corso dei decenni: basti pensare a quando si contribuì a rovesciare lo scià di Persia per consegnare il Paese ad una teocrazia oscurantista; o a quando si armò sino ai denti un dittatore sanguinario come Saddam Hussein per poi doverlo abbattere con una guerra scatenata in virtù di una plateale menzogna di Stato. Chissà se fra qualche mese dovremo pentirci di aver trasformato la Libia in un nuovo Libano fratricida o di averla affidata ad un pugno di integralisti che nel nome di Allah si rivolteranno contro i loro liberatori.
Per tornare a Gheddafi, è morto come aveva promesso: combattendo sino all’ultimo, senza tentare la fuga all’estero, restando al fianco della sua tribù d’origine. Dicono che abbia implorato pietà un attimo prima di essere ucciso, ma chi può testimoniarlo con certezza? La propaganda, che è una scienza avente come fine la disinformazione, non può consegnare alla storia un atto di eroismo estremo o un gesto sprezzante verso i vincitori: meglio diffondere l’idea che il rais sia morto piagnucolando o chiedendo al ragazzino che gli ha sparato di salvargli la vita.
Gheddafi era un pazzo sanguinario, si è detto sino all’altro ieri. Ma già si comincia a scrivere, visto che nel mondo l’intelligenza non è stata ancora del tutto sacrificata all’interesse, che la sua personalità era più complessa della caricatura che negli ultimi anni ne è stata offerta (e alla quale, sia chiaro, il diretto interessato ha abbondantemente contribuito, con le sue manie da satrapo e i suoi improbabili vestimenti). Quando prese il potere, ispirato al socialismo nazionale dell’egiziano Nasser, fu anche quella – agli occhi del mondo – una sorta di primavera araba: reami improbabili e fuori dalla storia lasciavano il posto a leader modernizzatori chiamati a traghettare, per via autoritaria, le loro giovani nazioni verso la modernità.
Ma Gheddafi – diversamente da altri capi militari arabi ascesi come lui al potere grazie a colpi di stato – aveva anche una visione continentale e ambizioni di egemonia oltre i confini della Libia. Anche il suo sogno africanista potrebbe essere oggetto un giorno di considerazioni meno effimere di quelle che a lungo gli sono state riservate.
Poi, certo, è stato un dittatore e un sostenitore del terrorismo internazionale, salvo mettersi l’animo in pace e darsi una calmata quando comprese di essersi spinto, specie nei rapporti con gli Stati Uniti, a un passo dal baratro. Il fatto è che con un uomo così tutti, anche nei momenti di massimo attrito internazionale, hanno continuato ad avere rapporti, più o meno segretamente e sempre per la stessa ragione: il petrolio. E quando si è trattato di riammetterlo nella comunità internazionale, avendo ammesso le sue colpe e saldato i suoi debiti (in senso letterale, versando milioni di dollari), è stata festa grande per tutti. Sono allora iniziati i pellegrinaggi nel deserto e gli inviti nelle capitali del mondo. E nessuno, tra i grandi della terra, che avesse da ridire sulle sue ridicole abitudini: la tenda beduina che si portava ovunque, le amazzoni che gli facevano da scorta, la predicazione del Corano impartita a figuranti pagati, i travestimenti improbabili con cui si presentava in pubblico.
In piaggeria e adulazione travestite da interesse nazionale noi italiani, come è noto, abbiamo ecceduto più di altri. Al punto da rendere penosi gli insulti al tiranno dopo che la Francia ha deciso di fargli la guerra costringendoci a seguirla; e privi di decoro, intrisi di ipocrisia, i commenti di queste ore, che in alcuni casi hanno sfiorato il giubilo e l’isteria. Diversamente da alcuni suoi ministri, almeno Berlusconi si è limitato a motteggiare in latino.
E dunque, per tornare all’inizio, verrebbe quasi voglia di rendere omaggio al combattente senza paura, al dittatore che accetta sino in fondo il suo destino fatale, al nemico che muore con una dignità e un coraggio sconosciuti ai suoi nemici dell’ultima ora. Ma sarebbe troppo. Diciamo – senza ulteriori commenti – che Gheddafi è uscito di scena nell’unico modo possibile, vista la sua biografia politica intrisa di sangue, e nel modo che tutti speravano, visti i troppi segreti di cui erano depositario. Si può anche gioire della sua morte, ma in silenzio.