di Spartaco Pupo*

Quando Giovanni Falcone diceva che la mafia uccide a Palermo ma investe a Milano, erano in pochi a crederci. Oggi, quelle profetiche parole rappresentano un’amara realtà. La mafia è penetrata a tal punto nel tessuto sociale e produttivo delle regioni più opulente del Nord Italia da partecipare alle più importanti attività economiche del territorio: dai centri commerciali all’edilizia, dalla ristorazione all’immobiliare, dai servizi ai trasporti. Intere province del Nord – secondo i dati più recenti diffusi dalle procure antimafia degli ultimi anni – sono “spartite” tra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta.

La ‘Ndrangheta, in particolare, è ormai da qualche tempo un fenomeno nazionale, non più solo calabrese. Quest’organizzazione criminale, tra le più temute al mondo, investe i suoi profitti in Emilia Romagna, in Lombardia, nel Piemonte e nel Veneto. In Calabria si fanno le faide e i regolamenti di conti tra ‘ndrine rivali, mentre al Nord si fanno gli affari, si ricicla il danaro sporco, si produce.
Il quadro che emerge dalla relazione della Direzione Nazionale Antimafia del 2008 non lascia spazio a dubbi. La ‘Ndrangheta è la più “policentrica” di tutte le organizzazioni mafiose, nel senso che può contare su diverse “capitali” sparse su tutto il territorio nazionale, e la sua massiccia presenza nel Nord Italia non è un fatto recente, come pure potrebbe apparire. Già negli anni ’70, la Lombardia era al centro dei sequestri di persona, che rappresentavano l’attività criminale più feroce messa in atto dalla ‘Ndrangheta, la quale, già a quell’epoca, mostrava una conoscenza approfondita del territorio lombardo, difficilmente acquisibile senza una presenza ben radicata nel tessuto sociale della regione. Per questo non trascurabile elemento geografico, non desta più scandalo il fatto che Milano venga oggi dipinta come la “capitale economico-finanziaria della ‘Ndrangheta”. La stessa DDA di Milano ne è al corrente da almeno un ventennio, visto che dagli inizi degli anni ’90 è impegnata a svelare gli interessi, le attività, gli insediamenti imprenditoriali e tutta la rete di coperture “istituzionali” e politiche di cui essa gode. Ma v’è di più.

La mafia settentrionale ha smesso di essere una “succursale” di quella meridionale, poiché conserva una sua “autonomia”, come conferma nella relazione del 2008 il sostituto procuratore antimafia Vincenzo Macrì, quando ci presenta “una realtà che da un po’ di tempo si constata in territorio lombardo, e cioè quella del progressivo affrancamento delle formazioni criminali mafiose di matrice calabrese dalla madrepatria calabra, in termini di sostanziale autonomia delle associazioni per delinquere di tipo mafioso che si sono costituite, o vanno costituendosi, resa anche evidente dal fatto che le aggregazioni lombarde non ripetono la rigida ripartizione territoriale di quelle calabresi”. “Il fenomeno – continua Macrì – che in passato si era constatato, dell’occasionale coagularsi nel territorio in questione di gruppi di ‘Ndrangheta di matrice diversa ed anche contrapposta in Calabria in alcuni momenti storici, oggi appare istituzionalizzarsi in forma stabile ed organica, pur permanendo sempre i rapporti con le zone d’origine, non in termini di dipendenza funzionale, bensì di interscambio operativo all’occorrenza e di riconoscimento da parte delle strutture lombarde della primogenitura di quelle calabresi”.

E la politica? Si è mai seriamente interrogata sulle possibili soluzioni da adottare, nel medio e nel lungo termine, al fine di arginare un fenomeno così inquietante e da sempre relegato alla sola società meridionale e, perché no, anche all’antropologia dei meridionali?

La misura della sprovvedutezza dell’attuale classe politica dinanzi al problema della istituzionalizzazione della mafia del Nord è data dalle semplicistiche, se non bizzarre, posizioni espresse recentemente dagli esponenti istituzionali di uno dei partiti più rappresentativi della società settentrionale: la Lega Nord. L’ultima è quella di qualche giorno fa di un parlamentare leghista, che è arrivato a addebitare ai magistrati di origine meridionale la causa della persistenza del fenomeno mafioso nel Nord Italia. Una visione a dir poco grottesca, che fa il paio con quella espressa qualche mese fa dal sindaco leghista di Verona, che proponeva di «commissariare la Calabria», abolire le elezioni in quella regione e inviare l’esercito a presidiarne il territorio. Una misura demagogica e del tutto fuori luogo, se non altro perché non risolverebbe il problema anzi potrebbe addirittura acuirlo. La ‘Ndrangheta, infatti, è da tempo attivissima anche a Verona e in tutto il Veneto, dove è dedita al traffico di stupefacenti e riciclaggio di danaro sporco, attività evidentemente più remunerative nel Nord-Est che non nell’estremo Sud. Se allora dovesse valere la regola del commissariamento per la Calabria “senza Stato” e con le faide, i prelievi di sangue e la povertà, la stessa dovrebbe essere estesa anche in quelle regioni, come il Veneto, la Lombardia, il Piemonte, ecc.., dove invece lo Stato c’è e c’è pure la ricchezza, quella legale ma anche quella di una mafia sempre più radicata, potente e incisiva nelle dinamiche sociali ed economiche del territorio. A meno che non si ritenga valido, e solo per il Nord, il vecchio adagio “pecunia non olet”. Ma, a quel punto, invece di annientare le mafie con una diffusa cultura della legalità e con la messa in pratica di politiche realistiche che ne recidano le connivenze negli apparati istituzionali dello Stato e degli enti locali, sarebbe da commissariare l’Italia intera.

* Docente di Storia del pensiero politico all’Università della Calabria