di Alessandro Campi
Un’alleanza politica, nella sua definizione più elementare, è una promessa di mutua assistenza – economica, militare – tra due o più soggetti sovrani. Ma cosa accade se i contraenti non hanno la stessa forza o potenza? Ne nasce un’alleanza ineguale o asimmetrica come in fondo è sempre stata la Nato. Basata non sulla reciprocità o parità delle prestazioni ma sulla capacità dell’alleato maggiore ed egemone (gli Stati Uniti) di offrire protezione e sicurezza ai suoi alleati minori (essenzialmente gli europei).
di Alessandro Campi

Un’alleanza politica, nella sua definizione più elementare, è una promessa di mutua assistenza – economica, militare – tra due o più soggetti sovrani. Ma cosa accade se i contraenti non hanno la stessa forza o potenza? Ne nasce un’alleanza ineguale o asimmetrica come in fondo è sempre stata la Nato. Basata non sulla reciprocità o parità delle prestazioni ma sulla capacità dell’alleato maggiore ed egemone (gli Stati Uniti) di offrire protezione e sicurezza ai suoi alleati minori (essenzialmente gli europei). Il problema è quanto questi ultimi siano disposti a pagare per la garanzia e i benefici che ricevono. Troppo poco, secondo Donald Trump.

Il tema dei costi della Nato, del crescente squilibrio tra risorse e impegni che gli Stati Uniti debbono sopportare, non è di oggi: era già stato al centro del vertice dell’alleanza svoltosi in Galles nel 2014 e conclusosi con l’impegno dei diversi Stati membri a portare la spesa militare interna al 2% del Pil prima del 2024 (anche se alcuni già rispettano questo livello di spesa). L’attuale inquilino della Casa Bianca, prima ancora di sbarcare a Bruxelles per l’incontro ufficiale con gli alleati, si è limitato a risollevarlo con la consueta brutalità, puntando il dito in particolare contro la Germania: per nulla generosa rispetto alla ricchezza interna che possiede e troppo succube, a suo dire, del gigante russo per mera convenienza affaristica. Ma la grave crisi che si sta profilando all’interno del blocco euro-atlantico non è solo una questione di budget (sui soldi al dunque ci si mette sempre d’accordo). E nemmeno un problema di cattivo carattere: il fatto cioè che Trump sia irruento, imprevedibile e poco rispettoso delle convenzioni diplomatiche.

La questione è politica, ha una valenza per certi versi epocale e dunque trascende la buona o cattiva volontà dei singoli. Siamo infatti alle prese, ormai da anni, con un cambiamento degli equilibri geopolitici mondiali talmente radicale da aver reso largamente obsoleto e inefficace il sistema di relazioni tra Stati che ha governato il mondo per decenni. Un cambiamento che l’Europa, più di altri, fatica a riconoscere e accettare visto che è proprio l’indebolimento del suo ruolo sulla scena internazionale il segnale più vistoso delle trasformazioni in atto.

Da questo punto di vista, i contrasti odierni su funzioni e missione della Nato sono un buon indicatore degli smottamenti che si sono prodotti nel sistema internazionale dopo la fine della Guerra fredda, col passaggio dall’ordine bipolare all’attuale disordine multipolare guidato nuovamente dalla logica della potenza. La caduta del comunismo, facendo venire meno la minaccia esterna che aveva fatto nascere la Nato, aveva già creato un’incrinatura nello storico legame politico-strategico tra Europa e Stati Uniti. La successiva sfida del terrorismo islamista, piuttosto che rafforzare la solidarietà transatlantica contro il nuovo nemico comune, l’ha ulteriormente indebolito. Pensiamo solo alla dottrina della ‘guerra preventiva’ avanzata da George W. Bush all’epoca della guerra contro l’Iraq del 2003 o a quella sull’‘esportazione della democrazia’, che strategicamente non sono mai state fatte proprie dagli europei. Ma pensiamo anche a formule come la ‘coalizione mondiale dei volenterosi’ per combattere il terrorismo (andando oltre i confini tradizionali della Nato) o la ‘comunità globale delle democrazie’ (da contrapporre alle Nazioni unite pullulanti di autocrazie): chiari indizi di come gli Stati Uniti, soprattutto dopo lo shock dell’11 settembre 2001, hanno smesso di giudicare utile per i loro interessi l’architettura istituzionale globale nata con la fine della Seconda guerra mondiale.

Insomma, l’unilateralismo oggi imputato a Trump, il modo supponente con cui sembra trattare i suoi storici alleati europei, la sua pretesa di muoversi sulla scena mondiale senza vincoli e mettendo sempre avanti gli interessi del suo Paese, vengono da lontano e sono il risultato di molti fattori, oltre quelli citati. Ad esempio il fatto banale che il Vecchio Continente non è più per gli Stati Uniti un’area vitale come nel passato. Le dinamiche della globalizzazione, soprattutto con lo sviluppo delle potenze indiana e cinese, hanno orientato sempre più la Grand Strategy americana verso l’area asiatica: qui si stanno creando le più grandi concentrazioni di energie umane ed economiche, qui si trovano i corridoi marittimi fondamentali per una potenza navale quale sono appunto gli Stati Uniti, qui si trova l’unico competitor strategico che questi ultimi temono sul serio, appunto la Cina.

C’è da chiedersi naturalmente quanto convenga all’America, se vuole mantenere il suo ruolo di potenza globale, spezzare l’unità dell’Occidente: oltre gli interessi economici ci sarebbe anche una omogeneità di valori e di ideali, ad esempio la comune fede nella democrazia, che non andrebbe trascurata. Anche se quest’ultimo tema, riferito specificamente alla Nato, rischia di aprire scenari imbarazzanti: se tra i princìpi ispiratori del Patto Atlantico, come si legge nei documenti istitutivi del 1949, ci sono la difesa del pluralismo politico, delle libertà individuali e del diritto quale atteggiamento tenere nei confronti di un Paese membro, la Turchia, che tende ormai a violarli sistematicamente? Meglio glissare.

Ma forse la vera domanda è quanto convenga all’America, chiunque sieda alla Casa Bianca, avere come alleato un’Europa che non è mai stata così debole (certo non ha aiutato la Brexit), divisa al suo interno e priva di una visione strategica condivisa. Lo si sta vedendo anche in occasione di questo vertice a Bruxelles: da un lato c’è chi (soprattutto i Paesi dell’ex blocco sovietico) preme perché la Nato potenzi il suo impegno sul confine orientale in funzione anti-russa, dall’altro c’è chi (ad esempio l’Italia) chiede una politica più dialogante nei confronti di Putin e un maggiore impegno dell’alleanza atlantica sul fronte mediterraneo per contrastare il caos mediorientale e per frenare i rischi d’infiltrazione terroristica che i flussi d’immigrazione clandestina portano con sé.

Manca all’Europa, dacché è entrato in crisi lo storico asse franco-tedesco, un indirizzo politico unitario. La Merkel è sempre più ripiegata sulle questioni interne. Quanto all’astro, già appannato, di Macron di lui si può dire quel che l’austriaco Klemens von Metternich diceva dello zar Alessandro all’epoca del Congresso di Vienna: “troppo debole per la vera ambizione, troppo forte per la pura vanità”. Perché sorprendersi, se questo è il quadro, che Trump preferisca parlare direttamente con Putin e giocare con gli europei come il gatto col topo?

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