di Maria Giorgia Caraceni
Luigi Ceccarini, Postpolitica. Cittadini, spazio pubblico, democrazia, Il Mulino, Bologna 2022, pp. 232
L’ultimo lavoro di Luigi Ceccarini, Postpolitica. Cittadini, spazio pubblico, democrazia [d’ora in poi Postpolitica], è un manuale che, come dichiarato dallo stesso autore nella parte introduttiva, vuole essere uno «spin-off» [p. 18] del volume scritto a quattro mani con Ilvo Diamanti e pubblicato nel 2018. Il precedente testo, intitolato Tra politica e società. Fondamenti, trasformazioni e prospettive [d’ora in poi Tra politica e società], appare evidentemente più corposo e, in un certo senso, più basilare, in quanto destinato ad un pubblico di neofiti – al punto che, ad esempio, all’inizio di ogni capitolo vengono elencati uno ad uno i vari obiettivi di apprendimento. Postpolitica, che è invece rivolto prevalentemente a studenti che abbiano già una certa conoscenza della materia, evita di soffermarsi sulla definizione di alcune nozioni di base, che vengono considerate acquisite, per dare maggior spazio alla discussione circa l’evoluzione di tali concetti nel tempo.
Il volume si presenta suddiviso in 7 capitoli corredati, in alcuni casi, da rappresentazioni schematiche di cui l’autore si serve per «contestualizzare, nel lungo periodo, alcuni aspetti di base che fanno da sfondo al discorso» [p. 16]. Il primo capitolo può essere considerato preparatorio rispetto a quelli che seguono, in quanto qui l’autore espone le ragioni relative all’impiego del prefisso post (che nel volume non è anteposto soltanto al sostantivo politica, ma anche a diversi altri – come, ad esempio, democrazia, rappresentanza, sfera pubblica, ideologia). Ceccarini si rifà, dunque, a quella tradizione che, partendo da Lyotard e passando per Crouch, ha inteso il post come indice della trasformazione di pratiche e concetti che in momenti storici precedenti venivano declinati in modo differente. Ed è ancora nel primo capitolo che i temi ripresi e approfonditi nelle sezioni successive vengono brevemente anticipati, affinché il lettore possa avere già un’idea complessiva dei contenuti del libro.
Indubbiamente, il filo conduttore che lungo tutto il corso dell’opera intreccia gli elementi che man mano vengono sviscerati, è il digitale. Esso, con la sua presenza sempre più pervasiva, è considerato la causa principale di mutamento della politica e delle società odierne (ancor più, per esempio, della globalizzazione dell’economia e/o del progressivo rafforzamento degli organismi sovranazionali), in quanto modifica radicalmente il modo in cui i cittadini si informano e partecipano alla vita politica dei loro Paesi. In ogni capitolo del libro, infatti, per quanto vengano presi in considerazione argomenti di volta in volta differenti, il riferimento al tema del digitale è una costante.
Il secondo capitolo è dedicato principalmente alla questione della cittadinanza democratica. Ceccarini constata la crescente complessità del quadro in cui viene a collocarsi tale concetto – che sfugge, di conseguenza, ad una definizione univoca – in quanto «l’elemento tecnologico ha assunto un ruolo chiave nel discorso pubblico» [p. 63]: l’utilizzo delle piattaforme digitali stravolge la natura del processo partecipativo – vale a dire, l’elemento fondativo della democrazia – che diventa, paradossalmente, individualizzato. Allo stesso tempo, il Web si fonda sulla disintermediazione e su una logica di tipo «bottom-up» [p. 67] (per la quale le questioni che si impongono nel dibattito pubblico sono quelle, per così dire, sollevate dal basso). È a partire da queste premesse che l’autore introduce l’altro grande tema del capitolo (sul quale, peraltro, torna più volte nel corso del libro), cioè quello della crisi dei partiti tradizionali, strutturati gerarchicamente e organizzati – invece – sulla base di un modello top-down.
Il terzo capitolo appare particolarmente ricco di contenuti. Il focus è la democrazia, argomento che viene esaminato attraverso la discussione di molteplici questioni ad esso correlate. Il discorso di Ceccarini prende avvio da quella che da più parti è stata definita crisi della democrazia, per evidenziare la presenza di un crescente sentimento di sfiducia nei confronti dei sistemi democratici – sempre più diffuso tra coloro che vivono nelle cosiddette democrazie consolidate – che si inscrive «nel quadro di una più ampia critica di tipo antipolitico rivolta all’establishment» [p. 81]. Alla base di tale tendenza, non vi è una critica «verso il modello della rappresentanza e delle elezioni in sé», bensì una profonda «insoddisfazione verso i governanti e la classe politica, per ragioni di mancata responsiveness e accountability» [p. 82]. Ancora una volta, lo sviluppo del digitale viene considerato il fattore centrale: è in rete che, per esempio, vengono diffusi contenuti antipolitici che molto spesso diventano virali in un lasso di tempo ristrettissimo.
All’interno di questo quadro, in cui rientrano anche campagne d’odio e disinformazione, è possibile rendere conto del fenomeno del crescente successo dei partiti populisti sulla scena politica e del conseguente consenso che questi riescono a riscuotere. Ceccarini, inoltre, nella sua analisi non trascura il riferimento ad un’altra tendenza, che interessa invece i leader dei partiti che si servono dei social per instaurare un canale di comunicazione «diretta e personale» [p. 92] con la loro base elettorale, e che spinge nella direzione di una graduale ma inesorabile «personalizzazione della leadership politica» [p. 95]. Quest’ulteriore rilievo permette all’autore di spiegare meglio il fenomeno – già accennato nel capitolo precedente – della crisi dei partiti, che viene dunque qui ripreso e approfondito. È proprio questo utilizzo dei social da parte dei leader di partito, che crea un cortocircuito per cui il leader non si trova più ad essere il servitore del suo partito, ma è quest’ultimo che si trasforma in una macchina di promozione della sua persona. Sulla scorta di una consolidata letteratura, l’autore afferma, inoltre, che i partiti di massa, protagonisti della scena politica del secolo scorso e che «fornivano rappresentanza […] su basi ideologiche» [p. 101], si sono progressivamente trasformati in partiti «pigliatutti [e/o partiti] […] professionale-elettorali» [Ibidem], cioè in partiti che, non solo non sono più radicati sul territorio come lo erano un tempo, ma hanno anche perso la forte connotazione ideologica che li caratterizzava. La loro attenzione è invece «rivolta alla dimensione elettorale e all’aspetto comunicativo» [Ibidem] e la leadership è diventata un elemento centrale. In particolare, la comunicazione politica che adottano è mirata ad imporsi a nuovi segmenti dell’elettorato e concentrata su singole issues e sulla figura dei leader, anziché su richiami a principi ideologici: l’attuale processo di «microtargettizzazione» [Ibidem] della politica ne è la diretta conseguenza.
Dunque, la crisi dei partiti di massa non coincide affatto con la crisi dei partiti tout court: queste organizzazioni, infatti, mostrano un’ampia capacità di adattamento ai mutamenti sociali e, di conseguenza, un alto grado di resilienza. Infine, Ceccarini rileva come, in tale cornice, si sia innescato un processo di fluidificazione del voto, che diventa, a sua volta, «sempre meno espressione di un’identificazione partitica e di un’appartenenza ideologica», subendo un processo di individualizzazione e personalizzazione, e innescando, in alcuni casi, fenomeni inediti come quello del «negative voting» [p. 103], per cui la possibilità di esprimere una preferenza nel segreto dell’urna, non è più concepita nel senso di una manifestazione di favore verso una parte politica ma, al contrario, di sfavore nei confronti dell’altra.
Nel quarto capitolo, intitolato Democrazie e piattaforme, l’autore sostanzialmente riprende questioni già trattate nelle sezioni precedenti al fine di argomentare ulteriormente quando già affermato, soffermandosi sul duplice processo di digitalizzazione dei leader e dei partiti. Tornando al discorso della personalizzazione della leadership e all’uso che i leader politici fanno dei social, Ceccarini constata l’esistenza di un altro curioso cortocircuito che si genera nel momento in cui i leader, alla ricerca di consenso, si trasformano in follower dei loro follower. Riguardo la metamorfosi dei partiti in senso digitale, invece, l’autore discute di alcuni esperimenti che si sono mossi in questa direzione, citando, ad esempio, il caso della piattaforma Rousseau voluta dal M5s.
Il quinto capitolo è invece incentrato sul tema dei cleavages. L’autore, rifacendosi alla nota teoria rokkaniana, afferma che le fratture sociali su cui si erano «radicate le visioni ideologiche del mondo, le identità partitiche, le appartenenze sinistra-destra» (vale a dire quelle stato-chiesa, città-campagna, centro-periferia, capitale-lavoro) e che per lungo tempo avevano assicurato «il substrato culturale e organizzativo alla democrazia dei partiti, fondata sostanzialmente sul modello del partito di massa», appaiono ormai «congelate» [p. 137], erose dal processo di modernizzazione. Tuttavia, i cleavages non sono scomparsi. Svariati studi (citati dall’autore in vari punti dei paragrafi 2-4 del capitolo) dimostrano, infatti, che nelle società odierne è possibile rintracciarne di nuovi: i principali, ad avviso di Ceccarini, sono quelli tra fronte populista e antipopulista e tra perdenti e vincenti della globalizzazione. Questo secondo cleavage è alla base del primo: è infatti tra i cosiddetti perdenti della globalizzazione che le forze antiestablishment trovano terreno fertile. I sentimenti di paura e ansia diffusi in questa componente di popolazione sono dovuti alla sensazione di deprivazione e disorientamento provata di fronte a un mondo globale che mette in crisi riferimenti tradizionali e sicurezze consolidate «travolgendo i confini dello […] spazio vitale», e spingono in direzione di una «ricerca di ancoraggi di sicurezza» [p. 151]. È per tali ragioni che lo Stato nazionale diventa «la comunità nella quale rifugiarsi» [p. 152] e verso cui indirizzare «la domanda di sicurezza e di policy orientate alla protezione sociale e di welfare». Per questi motivi, i vincoli imposti alle politiche nazionali dagli organismi di potere sovranazionali suscitano risentimento e malcontento sociale tra quei cittadini che «si sentono lasciati indietro» [Ibidem]. Ulteriori fattori di preoccupazione vengono individuati nelle innovazioni digitali che producono disoccupazione tecnologica, a cui si sommano le delocalizzazioni che mettono in crisi i sistemi di produzione locali. Ma i cosiddetti losers si sentono minacciati anche dalle contaminazioni sul piano culturale, avvertendo un pericolo persino nella presenza di soggetti appartenenti ad etnie diverse, portatori di differenti tradizioni, religioni e costumi. «Da qui il fascino esercitato dalle logiche protezionistiche e sovraniste […] [e] dalla costruzione, retorica e oggettiva, dei muri» [Ibidem].
Anche il sesto capitolo riprende un argomento già trattato nelle sezioni precedenti, vale a dire quello della partecipazione, tornando in particolare a sottolineare quanto la Rete abbia modificato la natura della partecipazione politica, rendendola «intermittente, singola e disintermediata» [p. 169]. Alquanto interessante è lo schema riportato alla pagina 166, in cui i caratteri della partecipazione 1.0 (l’azione collettiva collettivista del passato) sono posti a confronto con quelli della partecipazione 2.0 (l’azione collettiva individualizzata di oggi).
L’ultimo capitolo, significativamente intitolato Nella democrazia di Internet, è una summa dei precedenti ed è il luogo in cui l’autore cerca di trarre le conclusioni del suo discorso. La prospettiva che emerge non è troppo ottimista, ma neppure totalmente pessimista. Infatti, accanto ad elementi di cui discorre con una certa preoccupazione (quali, ad esempio, disinformazione, clickactivism, filter bubbles – con le conseguenti echo chambers), Ceccarini ne rintraccia altri che lo inducono ad affermare che la Rete possiede anche un’altra faccia, quella delle possibilità. I cittadini, infatti, trovano in Internet uno strumento che permette loro di avere «accesso a una vasta quantità di informazioni» ad un costo decisamente inferiore rispetto al passato, di cogliere «opportunità di partecipazione, assumendo così una responsabilità politica e civica nell’ambito della comunità di riferimento» [p. 191] e, infine, di «sorvegliare, attraverso avvertimenti, i detentori del potere» [p. 193]. La Rete, pertanto, non viene a configurarsi esclusivamente come uno strumento pernicioso, ma anche di inclusione.
Dopo aver sommariamente (e in maniera inevitabilmente non esaustiva) riassunto i contenuti del volume, ci sia consentito di avanzare qualche considerazione finale circa la struttura del testo e (quelle che paiono essere) le intenzioni dell’autore. Anzitutto, va rilevato che Postpolitica conserva la stessa impostazione rintracciabile in Tra politica e società, cioè adotta uno sguardo che è rivolto maggiormente all’aspetto sociologico che a quello istituzionale. Il volume, pur essendo classificato come manuale di scienza politica, presenta in realtà un’ottica interdisciplinare, intrecciando elementi di scienza politica e sociologia politica, arrivando finanche ad includere riferimenti filosofico-politici e psicologico-politici: la prospettiva ibrida del volume precedente è, pertanto, mantenuta. Ciò che potrebbe essere, prima facie, interpretata come mancanza di un’identità definita, e dunque un limite, si rivela essere invece, ad una lettura più attenta, il tratto distintivo del libro e, perciò, il suo punto di forza. Ma non è solo in questo aspetto che si coglie il legame tra i due volumi. Un primo (ulteriore) elemento di continuità è facilmente rinvenibile sfogliando l’indice del testo del 2018: la sua sezione conclusiva era intitolata La politica postmoderna; il manuale pubblicato quattro anni più tardi riparte esattamente da quel punto, vale a dire dal post. Ci si soffermi poi sul sottotitolo del primo volume: Fondamenti, trasformazioni e prospettive. Da esso si evince che l’intento degli autori era, in quel caso, di analizzare gli argomenti proposti secondo tale triplice approccio.
Ma, val la pena osservare, che quelle che quattro anni prima si configuravano come prospettive, dunque potenzialità, in Postpolitica si profilano come già presenti, risultando, per così dire, attualizzate. Ci sembra, dunque, che sia proprio questa la ragione che ha indotto l’autore ad optare, successivamente, per una scelta diversa: in Postpolitica, infatti, l’accento cade piuttosto sulla questione della trasformazione – delle democrazie odierne e delle categorie che le definiscono (una di quelle meglio discussa è, come si diceva sopra, quella di azione collettiva). Il focus di questo secondo manuale è, dunque, il cambiamento – rapido e incessante –: è quindi probabile che anche questo testo apparirà ben presto superato e/o necessiterà di un’ulteriore integrazione, ma è innegabile che allo stato attuale riesca a fornire un ritratto compiuto delle società odierne. Per tutti i motivi fin qui riferiti, riteniamo che sia riduttivo considerare questo libro solo un manuale, in quanto esso non consiste di una semplice esposizione di contenuti; i temi presentati sono, al contrario, discussi criticamente; inoltre, nel quadro di una tale impostazione, Ceccarini non manca di riconoscere che essi, in ogni caso, restano aperti.
Scopo dell’autore, attraverso l’impiego del termine Postpolitica, è di fare riferimento ad una categoria non ancora definibile, in quanto non ancora ipostatizzata, ma di cui si riescono, per così dire, a vedere i contorni. Certamente si tratta di un tipo di politica in cui dominano i processi di depoliticizzazione, ed è proprio per questo che uno dei temi a cui l’autore dedica maggiore attenzione è quello della partecipazione (o meglio, della trasformazione della sua natura – dalla partecipazione istituzionalizzata della democrazia rappresentativa a quella «polimorfa» [p. 161] della democrazia postrappresentativa). La sfida della Postpolitica può essere definita in questi termini: recuperare la dimensione della partecipazione rendendo marginale quella della depoliticizzazione. Naturalmente, non è possibile fare previsioni; ciononostante, il punto di vista dell’autore non è del tutto sfiduciato. Infatti, pur non negando la fragilità strutturale del modello democratico stesso – messo attualmente a dura prova da una serie di trasformazioni, in primo luogo la rivoluzione digitale –, Ceccarini ne sottolinea anche la grande capacità di adattamento ai cambiamenti e alle sfide – vale a dire, la resilienza – che gli ha permesso di modificarsi senza essere annientato, ovvero di perdurare nel tempo (la summenzionata trasformazione a cui sono stati soggetti i partiti, rappresenta, in questo senso, un buon esempio).
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