di Alessandro Campi
Ieri è successo di tutto, ma probabilmente non è successo niente, o comunque nulla di irreparabile. La politica pazza nell’epoca del post tutto (post-democrazia, post-ideologia, post-parlamento, post-verità, post-serietà, post-decenza…) funziona così, senza rispettare più alcuna regola scritta o consuetudine informale. Il momento prima sta per cadere il governo, quello dopo il governo continua imperterrito per la sua strada. Mentre tutti dicono di volere le elezioni scopri che in realtà nessuno le vuole. Tra alleati ci si insulta a sangue ma al dunque è solo un gioco delle parti a beneficio delle proprie tifoserie. L’opposizione vota insieme ad un pezzo della maggioranza come se niente fosse. E per il resto solo voci di corridoio, insinuazioni, chiacchiere che durano il tempo necessario a smentirle.
Le scorse ventiquattro sono state un esempio da manuale di questa anomala condizione che in Italia è invece divenuta normale. In Parlamento si è materializzata per ben quattro volte una maggioranza diversa da quella giallo-verde che sostiene il governo. Lega e Partito democratico, insieme a Forza Italia e Fratelli d’Italia, hanno votato a favore delle diverse mozioni a sostegno della Tav. Il M5S, che aveva voluto il pronunciamento e che ha subito gridato all’inciucio parlamentare, è stato dunque battuto e isolato su una questione che ha sempre considerato dirimente: per la sua propaganda ma anche per la sua azione di governo. Sarebbe stato, in altri tempi, il capolinea dell’esecutivo, ma al netto delle tensioni che hanno accompagnato il voto in aula lo spettro della crisi – con Conte già pronto a recarsi al Colle, come molti immaginavano e come qualcuno ha chiesto ma giusto per dovere – non si è materializzato. È prevalso un ragionamento meno drammatizzante: da un lato non si può far cadere un governo che, avendo appena incassato la fiducia sul provvedimento in materia di sicurezza, ha dimostrato di avere ancora una tenuta parlamentare; dall’altro si sapeva che questa prova di forza è stata voluta dai grillini solo per ragioni interne e di propaganda, per mandare ai propri simpatizzanti e militanti un messaggio del tipo “governiamo e ci sporchiamo le mani, ma sui temi che contano siamo ancora duri e puri come una volta”.
D’altro canto quale crisi può esserci se l’unico partito che, sondaggi alla mano, avrebbe interesse a votare – vale a dire la Lega – ha un leader che ritiene non ancora giunto il momento per andare al voto anticipato? Le ragioni dell’attendismo di Salvini, dopo che i commentatori si sono sbizzarriti in spiegazioni d’ogni tipo e dopo che i suoi uomini lo hanno pressato in tutti i modi affinché stacchi la spina a questo governo, a questo punto le conosce solo lui. Forse è uno stratega tanto abile quanto imprevedibile. Forse ritiene di avere ancora da guadagnare da questa situazione di litigioso impasse. Forse ha paura di vincere e di dover governare da solo. Forse nemmeno lui sa che pesci prendere essendo abituato a vivere alla giornata, tra un tweet, un selfie e un comizio.
Più prosaicamente, come qualcuno sostiene, ciò che veramente lo impensierisce sono le manovre del Quirinale, che pur di stopparne l’ascesa elettorale potrebbe inventarsi chissà quale maggioranza parlamentare alternativa all’attuale. Due cose di cui l’Italia in effetti abbonda sono la fantasia istituzionale e i parlamentari pronti a cambiare casacca per difendere la poltrona nel nome della responsabilità.
Quanto alle opposizioni, basta guardare a come sono messi al loro interno Pd e Forza Italia – tra litigi, dissidenze, minacce di scissione, personalismi e mancanza di una chiara offerta politica – per capire che a tutto pensano in questo momento meno che ad una battaglia elettorale che per la sinistra potrebbe risolversi nell’ennesima delusione, mentre per il mondo berlusconiano potrebbe risultare addirittura esiziale.
Ma sdrammatizzare pur di evitare il punto di rottura è un conto, tutt’altro è banalizzare. La stessa Lega, al momento di annunciare ieri il proprio voto a sostegno della mozione presentata dal Pd (edulcorata da quest’ultimo dei passaggi critici verso il governo proprio per ottenere il sostegno del partito di Salvini, lo stesso contro il quale il Pd aveva presentato una mozione di sfiducia il giorno prima: che straordinaria coerenza!), ha sostenuto che l’atteggiamento negativo e intransigente del M5S sulla Tav produrrà delle conseguenze. Ma se il governo non cade e il voto anticipato nessuno lo vuole quali possono essere le conseguenze minacciate come inevitabili? E qui si scopre quanto la politica della post-modernità è sì pazza, ma non stupida: imprevedibile nelle forme, ma prevedibilissima nei comportamenti (e negli appetiti). Vogliamo chiamarlo, senza che nessuno si offenda, rimpasto di governo o, per darsi un tono, riequilibrio delle forze?
Se davvero l’esecutivo giallo-verde intende andare avanti, diciamo almeno sino alla prossima manovra di bilancio e nella speranza che si ricrei un minimo di equilibrio o armonia tra i due alleati dopo le botte da orbi degli ultimi mesi, un qualche prezzo a quel che è successo ieri bisognerà pur pagarlo. E quel prezzo, se la politica ha ancora un senso e si vuole evitare di buttarla in farsa, si traduce nel sacrificio a questo punto inevitabile del ministro Toninelli. È da sempre l’uomo del No alla Tav per conto del M5S. Ieri un voto parlamentare voluto dal suo stesso partito lo ha messo ampiamente in minoranza. Come non trarne le doverose conseguenze? L’unica cosa chiara e indiscutibile accaduta ieri è, detto con brutalità, che la Lega ha (ri)vinto e il M5S ha (ri)perso. E chi vince, in politica come nella vita, detta sempre le condizioni a chi perde.
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