di Sofia Ventura
Quando tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008 il quadro politico sembrò semplificarsi grazie alla nascita del Partito democratico e alla successiva creazione della lista elettorale del Pdl, che poi nel marzo 2009 si sarebbe trasformata in un partito unico della destra moderata, con la confluenza di Forza Italia e Alleanza Nazionale, si ebbe l’impressione che la lunga e faticosa transizione italiana stesse risolvendosi finalmente con l’acquisizione da parte del nostro sistema partitico di tratti più compiutamente maggioritari, anche se rimaneva la consapevolezza che a tutto ciò continuasse a mancare quel riconoscimento istituzionale che solo avrebbe potuto garantire il consolidamento di quei tratti. Oggi, a poco più di tre anni di distanza, ancora mancano nuove regole, mentre Pdl e Pd mostrano tutta la loro fragilità e alle attuali condizioni sembra difficile che possano divenire protagonisti rispettivamente di una destra e di una sinistra in grado di svolgere in modo efficace i ruoli di forze di governo e di opposizione in una prospettiva di lungo periodo e in questo modo di aiutare l’uscita del nostro sistema politico da uno stallo sempre più pericoloso e sempre più simile ad un declino.
Entrambi sono prigionieri del fattore B, ovvero della presenza di Silvio Berlusconi alla guida del governo e dominus incontrastato di una destra sempre più allo sbando, priva di una visione e di una conseguente progettualità politica e orientata ad usare i mezzi più disparati non per governare ma per restare al governo. A sinistra, lo strumento dell’antiberlusconismo si è trasformato in una trappola. Da questa trappola l’attuale dirigenza del Pd sembra incapace di liberarsi; essa continua ad oscillare tra una concezione passatista (consensuale e ostile alle nuove forme di leadership) della politica – dopo avere sbrigativamente liquidato il progetto veltroniano del partito a vocazione maggioritaria – e tentativi di sposare le nuove forme di comunicazione che risultano però patetici e inefficaci poiché il packaging non è sufficiente se manca il prodotto. E il prodotto manca, poiché il Pd è incapace di farsi promotore di una offerta politica alternativa all’attuale maggioranza che sia credibile e che abbia qualche chance di vittoria, mentre la sua dirigenza continua a snobbare figure e proposte che cercano di rompere il circolo vizioso che si è prodotto tra antiberlusconismo sterile e inadeguatezza e pare interessata soltanto alla propria sopravvivenza.
Ma se per il futuro, stando così le cose, non ci si può attendere molto dalla sinistra e dal Partito democratico, nemmeno si possono riporre molte speranza nell’offerta politica proveniente da destra, in particolare se si guarda al dopo-Berlusconi. Come si diceva, il fattore B ha immobilizzato anche la destra italiana e ha impedito che il Popolo delle Libertà divenisse un partito capace non solo di gestire il presente (e lo gestisce malamente), ma anche di costruire il futuro.
Nel novembre 2008, in un suo articolo dedicato alle prospettive del centrodestra, Alessandro Campi auspicava la creazione di una struttura organizzativa stabile e radicata, con regole chiare e definite e in grado di creare una rete di dirigenti selezionata dal basso e una solida base militante. Al tempo stesso non si nascondeva le difficoltà, domandandosi come tutto ciò sarebbe stato realizzato e se sarebbe sorta all’interno del nuovo partito una reale democrazia interna attraverso la quale le diverse posizioni avrebbero potuto confrontarsi e contarsi, e collocava il progetto della nuova formazione nascente soprattutto in un’ottica post-berlusconiana, con la preoccupazione che il grande partito della destra moderata non dovesse finire e disgregarsi una volta ritiratosi dalla politica Silvio Berlusconi, leader indiscusso e carismatico, in grado di tenere assieme le diverse anime e mediare tra le diverse opzioni e ambizioni. Chi scrive, a sua volta, in diversi interventi sullo stesso argomento, ha spesso sottolineato i limiti della figura di Berlusconi, leader ‘antipolitico’ e poco attento alla dimensione delle istituzioni e delle regole (anche quelle preposte al funzionamento interno di un partito), augurandosi che, come era avvenuto in uno dei rari casi di istituzionalizzazione di successo del carisma, ovvero l’esperienza gollista, la classe dirigente del partito sarebbe stata in grado di creare un sistema di regole efficace e che ponesse in relazione i ruoli di vertice con la capacità di creare consenso presso la base e i simpatizzanti, in modo tale da preparare la successione e scongiurare il pericolo che il partito si trovasse impreparato ad affrontare le inevitabili “lotte di potere” per il ‘dopo Berlusconi’.
Come è noto, il Pdl non ha mantenuto la promessa di trasformarsi in un grande partito liberale e moderato, articolato al suo interno e capace di essere luogo di confronto e di elaborazione di idee e progetti e di reclutamento e promozione di una capace classe dirigente. Ha assunto la permanenza al governo a qualunque costo come obiettivo primario della sua azione, rinunciando, in questo modo, a scelte davvero liberali e coraggiose nell’ambito della politica economica e del welfare, schiacciandosi sulle posizioni della Lega di Bossi rispetto a grandi tematiche come quelle della sicurezza e dell’immigrazione, adottando posizioni confessionali e illiberali rispetto alle questioni attinenti i diritti e le libertà individuali. E si potrebbe continuare. Ma l’incapacità di farsi luogo di processi deliberativi e decisionali all’altezza di un partito moderato di un grande paese europeo come è l’Italia è strettamente legata al persistere al suo interno (come già era accaduto in Forza Italia) dell’assenza di chiare regole di funzionamento, al persistere, in altre parole, di dinamiche carismatiche che privilegiano la fluidità, l’obbedienza acritica al leader (secondo lo stile delle ‘tre narici’ di guareschiana memoria) e carriere secondo criteri opachi e di rado basati sul merito. Ciò che alla vigilia della nascita del Pdl ci si augurava – certo, con una buona dose di scetticismo – , ovvero che il gruppo dirigente avrebbe saputo costruire un vero partito e fare dell’input carismatico della leadership berlusconiana un elemento di legittimazione per un partito che acquisisse però una propria forza e una propria autonomia, non si è realizzato. Quel gruppo dirigente ha utilizzato il carisma e la capacità di costruire consenso del suo leader come strumenti per costruire carriere, percorsi e spazi di potere personali, senza porsi il problema di come dare vita ad un vero partito e ripetendo come un mantra che il Pdl traeva la propria forza proprio dall’essere un partito carismatico, volutamente ignorando che il partito carismatico se rimane tale è destinato a soccombere con il suo leader.
I costi di questo ‘presentismo’, di questa opportunistica visione di brevissimo periodo oggi sono evidenti. In una fase in cui l’immagine di Berlusconi comincia ad offuscarsi e il consenso nei suoi confronti è in calo e la sua forza e la forza della maggioranza – che per rimanere tale è costretta a squallide operazioni di palazzo e discutibili rimpasti e allargamenti dell’esecutivo – appaiono poggiare più che altro sull’assenza di una credibile alternativa, il Pdl si mostra sempre più fragile. La galassia di associazioni e fondazioni che fanno capo a singole personalità, più che fornire input positivi per il dibattito e la discussione costituisce il chiaro indicatore di una formazione divisa tra ‘bande’, in un contesto dove la questione della successione non è mai evocata esplicitamente, se non dallo stesso Berlusconi, e non può essere affrontata alla luce del sole persistendo l’impronta del partito ‘padronale’ ove nessuno può concorrere per la leadership in maniera chiara e secondo regole condivise. La recente nomina alla guida del partito di Angelino Alfano, sembrerebbe aver modificato la situazione, ma le modalità con cui essa è avvenuta sembra aver confermato la natura per l’appunto padronale e verticistica del partito.
Il probabile esito di questa situazione, dopo che Silvio Berlusconi si sarà ritirato dalla scena politica, rischia dunque di essere la frantumazione del Pdl, con ricadute molto negative sull’intero sistema politico-partitico e, in particolare, sull’assetto bipolare, già reso traballante dall’insipienza della dirigenza del Partito democratico. Ciò che rende ancora più preoccupante questa prospettiva è il fatto che, a destra, al momento non si delinea alcuna leadership e alcuna forza che paia capace di costituire un punto di aggregazione se davvero ci si dovesse trovare nella situazione di un partito in frantumi, una classe politica allo sbando e un voto in libera uscita. Questa funzione avrebbe potuto essere svolta dal Gianfranco Fini e da Futuro e Libertà, ma al momento le scelte compiute e il messaggio politico inviato agli elettori rimangono altamente insoddisfacenti rispetto ad un tale obiettivo, dominando piuttosto l’ambiguità e il basso profilo.
Non vi è dubbio che la costituzione di Fli sia stata una scelta obbligata, dal momento che per la sua natura il Pdl non era in grado di accogliere al suo interno una componente di minoranza, sin dalla costituzione del partito percepita come un fastidioso impiccio per il ‘manovratore’. Non altrettanto certo è che in tempi brevissimi si dovesse sfidare apertamente il capo del governo presentando una mozione di sfiducia e passando così all’opposizione. E’ evidente che, in quell’occasione, non solo sono state sottovalutate la potenza e la spregiudicatezza dell’avversario, ma – al tempo stesso – si è troppo sbrigativamente rinunciato a svolgere un ruolo di sfida e di pungolo dall’interno della maggioranza, con l’obiettivo di parlare soprattutto agli elettori del centrodestra.
Uno dei maggiori limiti del gruppo finiano, infatti, è apparso proprio quello di non sapere elaborare un discorso che si rivolgesse all’elettorato che sino ad oggi ha trovato come unica offerta politica credibile quella del Pdl. Un discorso che avesse contenuti che lo distinguessero nettamente dal berlusconismo, ma al tempo stesso non lo confondessero con la retorica e i luoghi comuni della sinistra (ad esempio, sul tema della giustizia o su quello della riforma della Costituzione e del ruolo del Parlamento) e lo caratterizzassero, piuttosto, come il motore di un rilancio della sfida liberale alle incrostazioni del nostro sistema economico e di welfare.
La costituzione del Terzo polo subito dopo la sconfitta del 14 dicembre, quando il governo Berlusconi ha visto confermata la fiducia, non ha fatto altro che aumentare le ambiguità del nuovo progetto politico. Laico e bipolarista, il gruppo di Futuro e Libertà ha ritenuto di limitare i danni (le fuoriuscite verso il Pdl) creando una formazione che, nonostante le rassicurazioni, ha assunto connotati terzisti, con un alleato che del confessionalismo e dell’avversione al bipolarismo fa da sempre le proprie bandiere. Il già debole appello agli elettori del centrodestra è stato così ulteriormente compromesso. Due sono le riflessioni che vale la pena di fare a questo proposito. Innanzitutto, i passi che si sono compiuti sono stati guidati da logiche ‘di palazzo’, con una grave sottovalutazione dell’impatto che avrebbero avuto sull’opinione pubblica; in altre parole, si è agito secondo schemi da Prima Repubblica, come se la politica e la comunicazione politica in questi ultimi venti anni non fossero radicalmente mutate. In secondo luogo, ma le due cose sono strettamente legate, si è compiuto lo stesso errore che la sinistra compie da anni, ovvero si è ritenuto che l’elettorato di centrodestra sia composto per lo più da beoti plagiati dai media controllati da Berlusconi, sottovalutando il fatto che esiste una parte di elettori che vota Berlusconi ‘turandosi il naso’, ritenendolo il male minore in assenza di valide alternative, e che sarebbe ben lieta di sostenere una nuova offerta politica convincente. In questo modo si è dissipato quel potenziale di consenso che era emerso nei mesi precedenti all’avventata scelta compiuta nel novembre 2010 a Bastia Umbra. Oggi pare che la massima ambizione di Fli, insieme ai suoi alleati del Terzo Polo, sia quella di impedire a Berlusconi di ottenere la maggioranza al Senato alle prossime elezioni, con quali prospettive politiche non è dato sapere, forse un bel governissimo guidato da un qualche ‘salvatore della Patria’, tanto per affossare definitivamente la lunga – e a questo punto, inutile – transizione italiana.
Questi limiti e queste ambiguità, infine, appaiono strettamente legati anche ad una carenza di leadership. Paradossalmente, dopo avere creato speranze, consenso, mobilitazione, dopo avere coraggiosamente sfidato il potere berlusconiano, Gianfranco Fini ha rinunciato ad assumere in prima persona e a tempo pieno la guida del suo progetto. Sopravvalutando l’importanza del ruolo di Presidente della Camera, Fini ha sottovalutato l’importanza della sua leadership in una fase delicata come quella della nascita di una nuova forza politica. Più che un partito plurale, Fli oggi appare un partito caotico; su temi rilevanti si possono riscontrare le più diverse posizioni, espresse dai vari esponenti del partito. E’ evidente che manca un luogo ove i temi e le strategie possano essere discusse e le decisioni assunte in modo informato, responsabile e coordinato, con la costante presenza del leader, dei suoi input, delle sue decisioni finali. Rimanendo alla Presidenza della Camera, Gianfranco Fini sembra quasi percorrere una sua strada solitaria, demandando ad altri – privi del suo carisma e del suo consenso – la conduzione e la gestione di un partito che sin dalla sua nascita ha risentito dell’assenza di una guida forte e decisa, con effetti non certo brillanti anche sul piano della comunicazione.
In un quadro politico desolante come quello italiano, la nascita di Fli aveva suscitato grandi speranze. Oggi, il partito che dovrebbe essere di Gianfranco Fini appare come una forza politica tra le tante e senza nemmeno grandi prospettive, per di più ingabbiata in un Terzo Polo dai connotati non chiari ma che sempre di più è identificato con un campione della Prima Repubblica quale è Pierferdinando Casini. Gli errori, certo, si possono correggere e la rotta può essere cambiata, ma per farlo è necessario comprendere che la politica nelle grandi democrazie è oggi fatta di grandi progetti, di grandi ambizioni e di leadership coraggiose. In alternativa, si può seguire la strada rovinosa seguita sino ad oggi dalla sinistra.
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