di Alessandro Campi
C’è da scommettere che più d’uno, nel sentire della clamorosa affermazione elettorale della Lega di Matteo Salvini, avrà ripensato al nome di Gianfranco Miglio, che del Carroccio è stato per un periodo breve ma assai intenso l’intellettuale di riferimento, amatissimo dalla base e seguitissimo dal grande pubblico anche grazie alle sue apparizioni televisive sempre segnate dal gusto della provocazione e da una cultura che da sola bastava a compensare le uscite spesso grossolane di Bossi e dei suoi seguaci.
Miglio era un federalista convinto (sin da giovane) e immaginava un’Italia divisa in grandi aree territoriali e organizzata sul modello cantonale svizzero. Considerava l’unità politico-statuale della Penisola un accidente storico che aveva prodotto un sistema istituzionale debole e artificiale. Non era per nulla affezionato all’idea di nazione in senso giacobino e centralista, mentre invece amava le piccole patrie. Il suo incontro con la Lega indipendentista e anti-unitaria all’epoca fu qualcosa a metà tra una necessità culturale e una folgorazione politica. Oltre all’illusione che gli studiosi sempre coltivano di poter prima o poi trasformarsi in consiglieri del Principe e tradurre le loro idee in realtà. Ma la disillusione, nel rapporto tra conoscenza e potere, è sempre in agguato: Miglio alla fine si stancò di Bossi e del suo opportunismo politico (più levantino che padano), ruppe ogni rapporto anche personale e tornò progressivamente agli studi, sino alla sua scomparsa nell’agosto 2001.
Con il nazionalista e radicaleggiante Salvini forse nemmeno sarebbe nato alcun rapporto, ma nell’immaginario collettivo resta ancora forte questo legame tra Lega e Miglio, che però coglie solo una parte (vogliamo dire il 15 per cento?) della sua personalità intellettuale. Che a cento anni esatti dalla sua nascita (avvenuta nella sua amatissima Como l’11 gennaio 1918) si potrà finalmente ricordare per quel che soprattutto è stato: un pensatore e scienziato della politica di indubbia grandezza. Basti pensare alle sue pioneristiche analisi sulle trasformazioni in senso personalistico-monocratico delle democrazie e dei partiti politici. Alle sue ricerche di storia amministrativa tese a spiegare che il potere vero, negli Stati moderni, è quello che esercitano le burocrazie e le strutture tecniche, non gli eletti dal popolo. Ai suoi lavori che hanno mostrato il carattere sempre artificiale e strumentale delle dottrine e ideologie politiche, che sono formule di legittimazione del potere. Ai suoi arditi progetti di riforma costituzionale in senso ‘decisionista’ e federale e alle sue riflessioni sui controversi rapporti tra guerra, pace e diritto nella sfera dei rapporti internazionali. E ancora ai suoi scritti sulla fine dello Stato, capolavoro del razionalismo giuridico europeo destinato dopo cinque secoli a lasciare il posto a nuove forme organizzative: negli ultimi anni, essendo anche un grande visionario, egli pensava ad un’Europa composta politicamente, come nel tardo Medioevo, da città-stato, grandi territori metropolitani e da strutture sovrane post-nazionali.
In un Paese malato di ideologia e culturalmente settario, Miglio – spesso ostracizzato dagli ambienti intellettuali mainstream in quanto cattolico di sentimenti vagamenti reazionari – non hai mai mostrato preclusioni. L’unico suo discrimine erano l’intelligenza e la passione per lo studio profondo dei meccanismi che regolano i comportamenti politici: come per Machiavelli le passioni umane sono eterne, anche lui pensava che le azioni politiche rispondano a regolarità e costanti destinate a ripetersi nella storia. Lui era un rigoroso osservatore delle lezioni della storia, gli altri degli ingenui utopisti. Nel Convegno che l‘Università Cattolica di Milano ha organizzato per oggi (7 marzo n.d.r.), grazie all’impegno dei suoi storici allievi Lorenzo Ornaghi e Pierangelo Schiera, non a caso lo ricorderanno pensatori post-marxisti come Massimo Cacciari, Giuseppe Duso e Mario Tronti, che con Miglio si sono incontrati (e hanno fittamente dialogato) quanto quest’ultimo ebbe la fortunata idea di presentare ai lettori italiani le teorie del sulfureo giurista tedesco Carl Schmitt: un bagno di realismo che trasformò per sempre una sinistra intellettuale malata di determinismo storicista e di un volontarismo rivoluzionario sempre sconfinante nell’astrattezza.
L’incontro odierno sarà dunque utile per riposizionare Miglio, dopo non pochi malintesi, nella posizione che più gli compete e per la quale merita di essere ricordato. Di accademico nel senso migliore del termine (per trent’anni, compresi quelli della Contestazione e della violenza politica, fu il mitico e inflessibile preside della Facoltà di Scienze politiche della Cattolica). E soprattutto, insieme al siciliano Gaetano Mosca e, tra i contemporanei, al fiorentino Giovanni Sartori, di scienziato politico tra i più pochi veramente innovativi del Novecento italiano. Da leggere e rileggere sapendo che dai suoi scritti ci sarà sempre qualcosa da imparare.
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