di Alessandro Campi
Lo scandalo che in questi giorni sta travolgendo Facebook ha un che, alla lettera, di epocale. Sotto accusa è infatti l’azienda simbolo dei nostri tempi. Le automobili (per dire dell’ultimo scandalo globale che si ricordi e che ha coinvolto una multinazionale) sono novecentesche, il nostro passato sul piano dell’immaginario. I social e la rete sono il presente e il nostro futuro, in un modo che s’immagina sempre più pervasivo.
Ma il tratto epocale di questa vicenda nasce anche da ciò che è in ballo: la libertà individuale, un bene assoluto, che l’uso delle tecnologie digitali avrebbe dovuto esaltare e che invece queste ultime rischiano di minacciare. Nessun’epoca ha fatto del rispetto della privacy una parola d’ordine al limite dell’ossessione, salvo scoprire – come in queste ore, ma in fondo già si sospettava – che siamo individui nudi dinnanzi al mondo, in un angolo del quale c’è qualcuno che in realtà sa tutto di noi. E il paradosso è che forniamo noi stessi, più o meno volontariamente, le informazioni essenziali, anche personalissime, che opportunamente assemblate ci stanno trasformando da utenti o fruitori di un servizio in merce: dati raffinati da mettere in vendita, o come nel caso venuto alla luce da utilizzare con l’obiettivo di alterare o comunque condizionare l’esito di una competizione democratica.
La questione è serissima. Lo dimostra il fatto che si siano svegliati i governi nazionali, persino l’Europa sovente sonnacchiosa. Già è innaturale che un’oligarchia non sottoposta ad alcun controllo possieda e gestisca, secondo criteri di puro tornaconto commerciale e sulla base di procedure che rappresentano un segreto inaccessibile a qualunque autorità pubblica, miliardi di dati personali accumulati all’insaputa dei diretti interessati. Ancora più grave è che costoro non siano in grado di tenere riservati questi dati o d’impedire che, rubati o ceduti per soldi che siano, se ne faccia un uso improprio.
Ciò detto, nel clamore (giustificato e legittimo) di queste ore emerge anche un sotto testo politico, un equivoco interpretativo, sul quale vale la pena soffermarsi. Quel che si sostiene, in certi casi in modo nemmeno troppo velato, è che i dati di Facebook finiti nella disponibilità di Cambridge Analitica sarebbero serviti a pilotare i risultati del referendum inglese e le presidenziali americane. Utilizzando i profili psico-sociali degli utenti, conoscendo cioè i loro orientamenti e gusti, ma anche le loro ossessioni e paure, si sarebbero indirizzati a milioni di elettori messaggi ‘personalizzati’, costruiti ad arte per orientarne il voto finale in una precisa direzione.
Una truffa a danno della democrazia, un’alterazione della volontà popolare. Così sembrerebbero spiegarsi la Brexit e la vittoria di Trump, e forse anche l’ascesa della Le Pen o l’affermazione recente dei populisti in Italia, su cui già si cominciano a fare insinuazioni. Può darsi che si sia davvero in presenza di una grandiosa strategia di manipolazione politica, che se provata getterebbe un’ombra sinistra sul futuro dei nostri sistemi politici. Ma bisognerebbe anche chiedersi, prima di arrivare a conclusioni frettolose e apodittiche, se non si stia sbagliando analisi e previsioni perché semplicemente storditi dai traumatici eventi politici che si sono verificati negli ultimi anni e che ancora non sappiamo bene come spiegare.
Saremmo tutti più tranquilli, in effetti, se potessimo provare che i terremoti elettorali avvenuti in America e in Europa sono stati il frutto di un complotto o di una campagna di manipolazione delle menti ben studiata e gestita a colpi di miliardi di dollari. Sarebbe come ammettere che senza l’azione di persuasori occulti e maligni i cittadini, in questo caso più vittime che colpevoli, avrebbero fatto altre scelte: razionali, ponderate, civili, veramente libere, va da sé autenticamente democratiche. La Clinton siederebbe alla Casa Bianca, la Gran Bretagna non starebbe trattando la sua uscita dall’Unione Europa, magari Renzi e Berlusconi starebbero per mettersi d’accordo su un governo da fare assieme.
C’è chiaramente un residuo di diffidenza illuminista nei confronti del popolo come soggetto facilmente manipolabile in questo modo di ragionare. Ѐ come se non si volesse ammettere la legittimità sul piano formale e la plausibilità politica di certi risultati in effetti clamorosi, soprattutto quando questi cozzano con le nostre attese e previsioni, Leggerli come il frutto di una scellerata manipolazione certo consola, ma quanto ci porta vicini alla verità?
In queste ore si rischia insomma di fare, su scala globale, lo stesso errore fatto in Italia nel 1994, dovendo spiegare le ragioni della improvvisa vittoria di Berlusconi. All’epoca si disse (e si continuò a ripetere per anni, in modo quasi ossessivo) che quest’ultimo aveva vinto solo grazie alle sue televisioni. Grazie cioè al consenso carpito attraverso un mix di messaggi subliminali indirizzati verso target specifici e abili proclami all’interno di innocenti programmi d’intrattenimento. Insomma, una forma di istupidimento di massa, una subdola manipolazione a danno soprattutto delle persone meno istruite e di quelle socialmente più deboli. Oggi, con Berlusconi ancora sulla scena nei panni di un abile statista, quella spiegazione unilaterale mostra quanto fosse sommaria e largamente infondata. Davvero i ‘cattivi’ e i ‘reprobi’ in politica vincono solo perché i ‘buoni’ e i ‘migliori’ vengono imbrogliati? Si può anche pensarlo, ma la storia ahimè c’insegna il contrario. Ragione di più per preoccuparsi di come stanno evolvendo le nostre democrazie: che debbono certo temere il cattivo uso delle tecnologie, denunciando con fermezza qualunque tentativo di alterazione del consenso popolare, ma ancora di più dovrebbero interrogarsi sul perché abbiano perso così tanto di credibilità e legittimità agli occhi dei cittadini. I manipolatori di folle, con qualunque strumento, ci debbono fare paura. Ma senza cittadini impauriti, smarriti e spesso abbandonati a sé stessi i loro proclami si perderebbero nel vento.
* Editoriale apparso su ‘Il Messaggero’ del 22 marzo 2018
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