di Giulio De Ligio
Gli europei non sono ben disposti ad affrontare la questione della loro identità collettiva. Forse sarebbe più onesto dire che diffidano, o disperano, di sé stessi. Sembra così che un testo sulla “’identità europea” non possa oggi partire, ad esempio, da Aristotele, san Paolo e Tocqueville presupponendo che quell’approccio sarà in qualche modo, forse, decisivo. Ogni affermazione collettiva, ogni professione di fede comune, pare dover escludere, al presente, ogni testamento. Proviamo a descrivere l’ostacolo iniziale che incontra la nostra introspezione, la sfida in cui ci si trova oggi fin dal primo movimento del pensiero e della parola pubblica.
Le immagini e le forme di vita che riempiono i romanzi nazionali, o gli album di famiglia, degli europei appaiono faticose, ipocrite e colpevoli. Nulla sembra motivare, o autorizzare, lo sforzo di preservarne la memoria e la ragion d’essere. Le scienze autorevoli e le passioni virtuali si incaricano di confermare ogni giorno, senza alcuna pietas, la maturità di quello scetticismo e la giustizia di quella liquidazione: le miserie che sfigurano il passato e minacciano il presente non racchiudono alcuna conoscenza sul “noi” che esige la loro cancellazione. Un’altra parte dell’opinione, ascoltando almeno in fondo a sé la pietas, vorrebbe semplicemente liquidare quel ripudio della storia e dell’anima europee, per poter dire senza tormenti o pentimenti “noi” – un “noi” che vale solo ormai “per noi”. L’identità non sembra contenere in ogni caso alcuna vera promessa di vita, alcuna promessa durevole di storia. A meno di sospendere indefinitamente la storia e la vita, nessuno può tuttavia evitare di esaminare ancora, nel foro interno ed esterno, cosa sia in gioco e all’opera nel fatto di vivere, pensarsi, decidersi in nazioni europee. Partiamo dunque anche noi da questo fatto pratico.
A dire il vero, “l’identità” satura oggi lo spazio pubblico occidentale, non solo perché diversi individui e gruppi esigono che qualsiasi loro orientazione, riconoscibile o meno ad occhio nudo, sia certificata come un’identità da rispettare e sia inscritta, senza deliberazione, nella legge comune. Concentriamoci qui sull’identità che dovrebbe definire la vita comune in quanto tale: anche in questo caso, l’adesione a dei valori democratici e il rispetto dei parametri di trattati sono richiesti in Europa con la certezza meccanica o rituale di un’autorità che verifica le condizioni di un’appartenenza – una “carta d’identità”. Tuttavia, come tutti sanno, quella carta non dice tutto di noi: l’identificazione delle azioni e delle parole, della biografia completa che anima quel documento oggettivo, anche quando è collettivo, incontra in realtà degli ostacoli che si situano a ogni profondità del pensiero e dell’esperienza collettiva. Una “questione di identità” sembra infatti significare diverse cose collettive.
A seconda dei casi, dietro il riferimento all’identità degli uni e degli altri, si intuisce ad esempio una ridda di elementi eterogenei e spesso scoordinati: grandi libri e minacce presenti, monumenti artistici e decisioni politiche, tradizioni e religioni. I fatti che per lo storico oggettivante hanno incontestabilmente segnato l’avventura europea – eventi, principi e istituzioni – sono poi diversamente interpretati: a seconda del valore che si accorda a quei fatti, sono alternativamente disposti nel cammino che conduce alla società moderna, ai fatti o ai valori del nostro presente. L’idea stessa di identità applicata a un corpo collettivo, come dicevo, è contestata dagli uni e rivendicata dagli altri, come fosse di per sé felice o infelice, discriminante. Il male, la distruzione, il mysterium iniquitatis manifestatosi nel Novecento europeo, soprattutto, sembra sigillare l’avvertimento più profondo e incontestabile, l’avvertimento conclusivo: nessuna determinazione della lunga catena della vita europea che persiste o merita di essere salvata nel tempo, nessun criterio di identità europea all’altezza della storia umana, resisterà alla prova della legittimità politica, della coerenza morale, della memoria di drammi inespiabili. L’imbarazzo europeo si situa dunque, ha dunque questa profondità: ogni risposta a delle ineludibili questioni di identità – se sono solo per me stesso, che cosa sono? a quale comunità apparteniamo? quali debiti costituiscono noi e il nostro compito durevole? – pare contraddetta dalla storia europea. Ogni risposta sembra richiedere un oblio di qualcosa di quella storia, un oblio che contraddirebbe a sua volta le idee dell’Europa: le idee, o i criteri di identità tramandati dalle opere, dagli esempi personali e dalle speranze. Anche un breve testo come questo non può allora fare a meno di cercare con serietà cosa possa dire, hic et nunc, la questione dell’identità dell’Europa; cosa voglia dire per noi l’identificazione di una forma di vita comune; quale attitudine possa ben disporre a intendere la questione dell’identità, ad appropriarsi della sua risposta. Non ci basteranno, in altri termini, una competenza storiografica, una diagnosi sociologica e lo sfoggio di nobili citazioni sulla “Europa”. Per l’essere che parla ed agisce, come si arriva alle conclusioni, come si vivono e comprendono i loro contenuti, l’essere che giunge a quelle conclusioni sembra altrettanto decisivo delle conclusioni stesse. Le nostre conclusioni, per così dire, restano delle azioni.
Se è dunque permesso partire, o ripartire, da una tautologia formale e chiarificatrice, la questione dell’identità non smette di riguardare noi. Quella questione è per così dire elusa solo dallo sventurato che ha perso interamente la memoria, non è ovviamente aggirata nemmeno da colui che abbandona la sua patria, dall’intellettuale decostruttivo o dall’apostata che vi rispondono in realtà esplicitamente, ma i suoi termini sono in effetti ambigui. In particolare, le affermazioni che riguardano l’identità collettiva – “noi siamo questo” – suscitano immediatamente un disagio, sono cioè spesso contestate in quanto tali e non solo a causa del loro contenuto specifico (il “questo” del noi) che dovrebbe costituire il cuore della deliberazione collettiva (le conseguenze pratiche e presenti del “siamo”). Per liberare il terreno da alcuni malintesi che ostruiscono lo sguardo che dirigiamo verso noi stessi, illustriamo brevemente il busillis a partire da un esempio oggi difficile, divisivo e decisivo, dunque chiarificatore. Prima di avanzare una conclusione sull’identità collettiva, dicevo, chiediamoci come essa andrebbe formulata in questo tempo e in questo mondo.
Le affermazioni sull’identità sono oggi presentate in generale come “identitarie”, così come si imputano di solito i vizi atavici e fatali del nazionalismo a ogni asserzione sul significato umano delle nazioni o alle aspettative di quanti non possono fare a meno di agire lealmente, a volte persino caritatevolmente, dove vivono in carne e ossa. Di certo, le affermazioni “identitarie” manifestano le contraddizioni, cioè le tentazioni politiche e morali, dell’idioma identitario. Ma in che senso? Per prendere l’esempio rivelatore su cui si concentrano ancora le dispute europee, cosa si obietta ai discorsi che affermano in vari registri “l’identità cristiana” dell’Europa? Distinguiamo le risposte o le obiezioni, sintetizzandole all’estremo, per cercare di meglio unire gli elementi del nostro problema e del discernimento di ognuno.
Non esitiamo a dirlo e ad ammetterlo: alcune delle obiezioni alla “identità cristiana” sono in realtà dei rifiuti per così dire coerenti, le conseguenze del no eterno e diretto che certe anime formulano ricevendo la proposta cristiana. Quelle obiezioni riguardano dunque i contenuti, le forme e le speranze di vita: la verità effettiva dell’Europa, si sostiene nel quadro di quelle obiezioni, non è stata decisivamente segnata o non deve più essere segnata dal cristianesimo, vecchia superstizione corruttrice che sopravvive solo attraverso la corruzione che la Chiesa produce. Altre obiezioni, più esitanti, relegano il “significato europeo” del cristianesimo per così dire alla storia passata del Vecchio continente, all’infanzia o all’antico testamento dell’uomo moderno: il cristianesimo può essere riconosciuto per il suo magistero un tempo formatore, come si tollera piacevolmente l’esistenza di una vecchia chiesa in un villaggio, ma le attività essenziali e direttrici del mondo non lo riguardano più. Il “riconoscimento” del cristianesimo è allora in quel caso dispensato dall’intima conoscenza del Vangelo o dall’esame di ciò che il cristianesimo potrebbe conoscere di noi. Ora, le tesi indistintamente chiamate “identitarie” si radicano, anche esse, nella storia europea, ma affermano uno dei suoi “contenuti” – nella fattispecie, qualcosa del cristianesimo – al presente (torneremo in conclusione sul futuro o sul durevole). Proprio quel tipo di proposizioni o di declinazioni al presente dell’identità cristiana suscita delle reazioni, spesso e volentieri del resto di certi credenti preoccupati a ragione per la coerenza, o per la purezza visibile, di un argomento associato al messaggio evangelico.
Ciò che si può chiamare la tesi identitaria, in effetti, rischia di avanzare un’affermazione sulla verità “comune” del cristianesimo – ecco l’intrinseca incoerenza o l’autentica tentazione – che appare e talvolta si presenta come unicamente culturale, indipendente dai motivi costitutivi della fede, in un certo senso separatrice dei popoli. Nella fattispecie, la proposta universale che la tesi identitaria mobilita al presente si metamorfizza in un “noi” che sembra dichiarare la sua indifferenza alla coerenza dell’azione umana e a tutto ciò che implicano le fonti e le virtù della comunione cristiana. Nel “noi” identitario si indovina allora il volto di un nuovo cristianesimo senza Cristo, fratello nemico o concorrente di quello che anima molti umanitari. È dunque giusto, sarebbe dunque pio riconoscere o confessare la tentazione e la contraddizione inscritte in quelle affermazioni rivelatrici del nostro disagio comune. L’esame di coscienza collettivo, tuttavia, si ferma di solito oggi in Europa a questa incoerenza per così dire teorica, come fossimo certi di conoscere pienamente (non oso dire di poter scomunicare) i motivi degli “identitari”, come se la coscienza di questi ultimi fosse immutabile e facilmente penetrabile, come se quei minacciosi concittadini fossero del resto divenuti incapaci di azione e conversione. Cerchiamo di rinunciare umilmente, per approfondire il dibattito, a questi “come se” fallaci.
Occorre in effetti ammettere anche questo: alle contraddizioni latenti o verificate, alle vere tentazioni della prospettiva “identitaria” risponde spesso allora l’ingenerosità meccanica, la parzialità pratica, la carità altezzosa e intermittente dei loro critici, che sembrano a volte conoscere senza rivelarla la verità dei rapporti tra politica e religione, l’ultima ora dell’umanità e dell’Europa. Viene quasi da dire che, nella debolezza presente delle nazioni europee, i “critici degli identitari” danno spesso l’impressione di sparare sulla Croce Rossa (non oso dire sulla croce) di quanti desiderano riconoscere, difendere, salvare qualcosa di quelle nazioni. Ciò che può risuonare come una scoraggiata implorazione popolare, come l’eco distante di un lamento per le sorti di una comunità amata che pare sottomessa a forze immemori, ciò che meriterebbe semplicemente lo sforzo responsabile di una deliberazione su un corpo politico è allora presentato sistematicamente come un grido di guerra o di discriminazione. Ogni risposta a un’alternativa che riguarderà il collettivo, quali che siano i “contenuti di vita” che la determinano o perché quella risposta è determinata da contenuti distintivi che affermano la vita, è condannata ad apparire come una reazione pericolosa e vana – impedendo così nel tempo di distinguere, tra le altre cose, il vero pericolo delle vanità. Lo si vede o si potrebbe vederlo: anche l’idioma critico è esposto e ci espone alla tentazione fatale di un vuoto linguaggio. Misuriamo dunque umilmente, per approfondire il dibattito, il rischio inerente anche a questa attitudine davanti alla questione dell’identità.
Sulla base delle sue premesse generali e delle sue pretese psicologiche, la critica degli identitari – o la negazione identitaria – tende a distogliere le parole e le azioni comuni dallo sforzo di approfondire eventualmente tutte le conseguenze personali e collettive di un’affermazione che riguarderebbe a ragione, nel nostro esempio, ciò che vi è di cristiano nella forma di vita europea. Intimidendo un simile sforzo di chiarificazione della cosa comune, la critica o la negazione identitaria scoraggia il tentativo di esaminare e di rivelare la verità attiva degli stessi identitari. Quell’intimidazione esonera infatti il credente inquieto, l’uomo di buona volontà o il benpensante dal chiedere ai sostenitori della “identità cristiana dell’Europa”, se non vogliono contraddirsi limitandosi ad avere l’Alleanza sulla bocca, con che azioni e parole il “noi” che difendono riguarderà e compirà il nostro presente, la storia della salvezza e il bene del tutto. In fondo – se non si può fare a meno di giudicare o di cercare in superficie ciò che si manifesta del fondo – il critico o il negatore identitario sembra non curarsi davvero, nemmeno lui, di comprendere quale nazione, quale comunità delle nazioni o quale Europa è e sarà all’opera; in vista di quale compito positivo e di quale missione delle nazioni una “identità” è difesa o deve essere rifiutata. La risposta dei critici delle tesi identitarie, o delle suppliche nazionali, ha la forma imprevista di una reazione alla reazione. Per ciò che esclude della verità umana che può inserirsi nel temporale condiviso da anime e popoli, quella critica o quel sospetto negatore sembra piuttosto abbandonare il buon europeo di fronte a un paradosso intimamente estenuante e collettivamente paralizzante: europeo aperto e maturo, questo essere liberato dalla fede in ogni identità collettiva dovrebbe quasi ripetersi prima di ogni azione – o al momento di ogni preghiera – che non vi è nulla di buono, nulla di umano, nulla di universale nella preoccupazione e nell’azione che cominciano da ciò che è nostro. Come se i concittadini delle nazioni europee, o gli esseri più familiari, non fossero anch’essi dei prossimi, i destinatari di opere della giustizia e dell’amore che mettono tutta l’anima alla prova. Come se per un mistero del logos l’identità ben compresa non riguardasse innanzitutto gli europei, se stessi. Come se il padre o il figlio fosse l’ultimo vivente che l’uomo retto e compassionevole, nel vero “spirito” europeo, dovrebbe provare a salvare in un naufragio collettivo.
L’approfondimento del dibattito sulla continuità delle nazioni europee – o di ciò che deve continuare nella vita umana in Europa – dovrebbe dunque incitarci a rinunciare, umilmente, a simili come se, etsi…Il lacerante paradosso, l’intimidente atmosfera creata da questi presupposti virtuali in cui rischiamo – sì, per così dire – di radicarci e di dimenticarci tradisce una delle rare urgenze che non attirano la nostra attenzione. La situazione presente spinge dunque a chiedersi urgentemente, concretamente, umilmente quale sarebbe l’attitudine fedele e adeguata di un europeo praticante di fronte alla questione dell’identità collettiva. Insistiamo ancora, attraverso altre tautologie, sui termini della questione e i criteri della risposta da cercare. La determinazione di quell’attitudine, per definizione, si rivelerà indissociabile dall’identificazione della forma di vita, della comunità o della comunione che continuerà eventualmente a darle corpo nel tempo, poiché si tratta di esperienze “oggettivate” dalle azioni e dalle parole umane, anche quelle che eventualmente trovano sostegno e compimento nelle preghiere. Dopo aver attraversato la divisiva situazione presente per non limitarmi a qualche solenne citazione, oso dunque aggiungere per “concludere” qualche rapida considerazione alla riflessione millenaria sull’Europa, la riflessione che forse solo una “preoccupazione eterna” non esaurirà. Si noterà in ogni caso questo fatto che abbiamo ora, troppi giorni, sotto gli occhi: la situazione presente è anche quella che sta manifestando che nessuna attività essenziale sussiste come un aspetto familiare e credibile della vita senza la coscienza attiva degli uomini che la conoscono per ciò che è e senza l’esperienza delle nazioni che la istituiscono e rappresentano. Sarebbe dunque paradossale che questa tanto vexata quaestio – “l’identità dell’Europa” – non obbligasse a considerare e a discernere le comunità e le attività che ci costituiscono come persone. Spero altri troveranno almeno in questi accenni non solo un programma di lavoro teorico, ma anche e soprattutto i termini di ciò che Gaston Fessard chiamava, esaminando la vocazione delle nazioni nel suo hic et nunc, un esame di coscienza collettivo.
Istruiti o almeno avvertiti dallo sforzo di chiarimento dei termini pratici delle nostre conclusioni, si potrebbe a questo punto riformulare la diagnosi da cui è partita questa riflessione. Gli europei non si sottraggono “in generale” all’inventario dei criteri d’identità che permettono di giudicare ogni realtà umana, personale e collettiva, e di nominare ciò (ad esempio, appunto, l’Europa) che persiste attraverso i cambiamenti o si vuole ripudiare, ciò che muore o va salvato. A seconda dei casi, gli europei sembrano autorizzare tutte le identità concepibili dagli individui come fossero infinite e sempre compatibili, rigettare certe tesi identitarie o escludere la possibilità che dei contenuti e delle forme di vita in sé difendibili (ad esempio, nonostante tutto, il messaggio evangelico) identifichino in qualche modo le nazioni europee o gli europei attraverso la vita delle loro nazioni. Se sono colti e moderati, constateranno a ragione che la ricchezza del concerto europeo, la fiducia o la speranza che ha sospinto la storia europea, il rischio fecondo corso per secoli dall’anima europea, sono stati e rimangono i frutti di fonti plurali. Quegli europei moderatamente colti sono così tentati, tuttavia, di abbandonare la ricerca della gerarchia e dell’educazione compiuta delle identità; tendono a rinunciare al discernimento, all’esperienza o alla confessione della “comunità per eccellenza” che permette una vita coerente e completa – la comunità politica o/e spirituale che integra le esperienze conoscibili, riunisce le generazioni oltre il tempo conoscibile, riscatta o redime le cadute umane conoscibili nella storia. In assenza di quei criteri vissuti, si capisce così che “identità” voglia dire spesso in Europa, oggi, tutto o niente. Per prendere con qualche facilità un’analogia individuale che riuscirebbe forse ancora a sorprenderci, la composizione identitaria 1 (un italiano, domiciliato dalla nascita a Firenze, credente, padre responsabile di tre figli e insegnante al liceo) tende allora a non apparire in sé come essenzialmente più difendibile, più coerente e praticabile della composizione identitaria 2 (un italiano, emigrato in Asia, credente, don Giovanni impenitente, commerciante d’armi). “L’identità” non riguarda più così la continuità di una storia che diremmo umana, la parte di mistero che accompagna dalla vita alla morte un corpo o un corpo collettivo, il principio compositivo di una vita buona, ma solo i riflessi reattivi di entità indistinte e indistintamente minacciate. L’insegnante e il don Giovanni vogliono vivere, mangiare e desiderare, come e dove capita: ecco l’identità che ci resta e che è a volte in gioco, si direbbe, in Europa.
A questo punto, tuttavia, molti europei devono forse ancora intuire che la questione è più profonda e ancora da approfondire, per coerenza o per pietas. Possono forse allora consultare nuovamente con un’attitudine intima e collettiva, disponibile e attiva – direbbe Péguy: “come se Omero fosse l’ultimo libro uscito in libreria” – le fonti della storia e i motivi della lunga azione europea. Le testimonianze da meditare sarebbero molto numerose, infinite per questa vita, anche tralasciando il caso religioso che ho evocato e tutte le pagine europee che esso ha ispirato. Un celebre “sintetico” frammento di Paul Valéry, pur scritto pensando a civiltà mortali, aiuterà forse a dar di nuovo spessore alla questione dell’identità: “Mi sembrano queste le tre condizioni essenziali che definiscono a mio avviso un vero europeo, un uomo in cui lo spirito europeo può abitare nella sua pienezza. Ovunque i nomi di Cesare, Gaio, Traiano e Virgilio, ovunque i nomi di Mosè e san Paolo, ovunque i nomi di Aristotele, Platone ed Euclide hanno avuto un significato e un’autorità simultanei, là c’è l’Europa.” (“L’Européen”, 1924). Proviamo ancora a precisare in effetti come si potrebbe dar spessore – o dar vita – a simili affermazioni, una delle pagine che sembrano dire all’Europa ciò che essa è all’ora in cui non sa che fare di ciò che essa è, o non sa che fare tout court. Se i veri europei non devono trovarsi ovunque tranne che in Europa, la logica di quei “nomi” che dicono il suo essere, il significato attivo di quelle umanità non sarà affrontato, compreso e ricevuto solo come un documento del passato. Sviluppando le prospettive che parlano di Atene, Gerusalemme e Roma, si deve dunque dire che lo spirito europeo si chiede ancora hic et nunc cosa c’è sempre di biblico, di greco e di romano in noi. In altri termini, continua a esaminare quale modo di associare gli uomini, comprendere il mondo e condurre l’anima è associato a quelle forme di vita ed è richiesto dalla loro “simultaneità”.
Il lettore che stava ancora pensando al giornale quotidiano delle nazioni europee, alle dispute confuse tra gli identitari e i loro critici, o alle tendenze registrate dalle ultime polemiche e statistiche, avrà avuto ora la comprensibile impressione di aver cambiato piano. Avrà forse sentito di aver lasciato un istante la nostra terra desolata, di aver raggiunto finalmente il cielo in cui il dibattito sull’Europa è davvero elevato, culturale o spirituale, distante dalle vanità della politica e dalle miserie delle nazioni. In quell’impressione presente, in quello scarto civico, in quella separazione tra la terra e il cielo, giace forse il nostro problema “identitario”. Più di ogni dato o notizia di questo presente infinito e introvabile, quell’impressione informa sul paradossale divieto che pesa sullo sforzo di dire e riconciliare gli elementi del mondo. Quella desolazione indica forse da lontano il tassello mancante – la pietra angolare – della nostra architettura intima e collettiva. In ogni caso, l’esempio discusso nelle prime pagine di questo testo, invece di essere solo il prevedibile lapsus o la conclusione dell’autore, è forse ancora il caso eminente del nostro problema. Se la questione ben compresa della “identità” in Europa non può che riguardare inseparabilmente il significato giusto e durevole dell’appartenenza alle comunità politiche, l’identificazione di ciò che le nazioni hanno in comune e la simultaneità – la mediazione – di Atene, Roma e Gerusalemme, allora cristianesimo ed Europa continuano a chiarirsi reciprocamente, intimamente e temporalmente. Si possono ancora aprire tanti libri, meditare molte vite, condurre anime e azioni per riprendere quel duplice chiarimento. Dai due lati del Reno fatale all’ombra della passione dell’Europa, due cristiani europei impregnati delle loro patrie, Charles Péguy e Romano Guardini, hanno di fatto trovato la stessa parola per designare quell’incessante sforzo formatore e rivelatore: l’autoapprofondimento delle nazioni e delle coscienze europee. Per concludere queste pagine, lasciando il lettore ai piedi della questione, vorrei almeno introdurne lo spirito e l’esigenza.
Al fondo o al termine di quell’approfondimento della storia e dell’anima, non si troverà la disputa apparente e sterile tra le tesi identitarie e le loro negazioni, ma delle alternative vissute sulla giustizia e la carità. Al fondo di quell’esame di coscienza intimo e collettivo, si troverà la domanda di cosa gli europei, oltre la logica dei loro criteri espliciti, vogliono fare delle promesse del loro battesimo. Al fondo di quell’unica coscienza in cui gli europei potrebbero comprendersi pienamente, si troverà forse l’eterno “presupposto” dell’incarnazione cominciata temporalmente in una grotta statisticamente insignificante di Betlemme e che ha da allora aggiunto una dimensione al pane e al vino di ogni giorno, un rischio infinito all’azione umana, una città al concerto delle nazioni. La grazia non è semplicemente un criterio da precisare. L’autoapprofondimento dell’Europa, tuttavia o così, offre anche una lezione sulla coerenza e sulla credibilità del presente, sulle identità collettive, sull’eterno che è alla prova e all’opera nel temporale: non vi è nulla di giusto e salvifico che non inizi da noi, ma l’affermazione coerente del noi mira alla sua giustizia, alla sua salvezza. Per l’europeo praticante, ogni parola di questo chiarimento richiede un costante approfondimento.
La prima versione di questo testo è apparsa nella rivista “Ricerca” (n. 1-3, 2021)
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