di Alessandro Campi
Quando si ragiona sulle decisioni (prese o da prendere) di un politico bisognerebbe avere la capacità, diceva un liberale saggio e realista come Raymond Aron, di mettersi nei suoi panni e di ragionare, per quanto possibile, con la sua testa. Ciò premesso, quali saranno le prossime mosse di Salvini? Cosa vuole veramente? E cosa gli conviene?
Il leader della Lega, da Nord divenuta ormai nazionale, dopo il voto ha rivendicato e ottenuto per sé, avendo avuto più voti di Berlusconi, il ruolo di kingmaker: che nella teoria dei giochi – come si sa – è colui che non dispone delle risorse necessarie a vincere da solo, ma ha comunque mezzi sufficienti per influenzare il comportamento degli altri attori e indirizzare la partita verso l’esito per lui più vantaggioso.
L’alternativa più importante dinnanzi alla quale sembra trovarsi in questo momento Salvini, dopo aver condotto in modo assai abile la trattativa per l’elezione dei Presidenti nei due rami del Parlamento, è la seguente: provare a fare un accordo diretto ed esclusivo con Di Maio (al quale lo legano anche solidarietà generazionale), sacrificando così la sua alleanza con Berlusconi; oppure tentare, quale delegato e voce ufficiale del centrodestra, di stringere un’intesa con i grillini che coinvolga però anche il mondo berlusconiano.
L’ambizione sul medio-lungo periodo di Salvini è chiara: egemonizzare l’area della destra italiana prendendosi gli uomini e gli elettori che furono (e, in parte non del tutto trascurabile, ancora sono del Cavaliere). Ma quest’obiettivo può appunto provare a realizzarlo in due modi: spezzando l’unità del centrodestra e lanciando la sfida definitiva a Berlusconi; oppure tenendo unito il centrodestra e provando a svuotare Forza Italia dall’interno. Nel primo caso, si può pensare che il suo interesse maggiore sia accordarsi con il M5S con l’obiettivo di tornare al voto prima possibile per capitalizzare i consensi crescenti che tutte le previsioni e i sondaggi assegnano ai due partiti usciti vincitori dalle elezioni del 4 marzo (la Lega viene ormai accreditata oltre il 23%, con Forza Italia intorno al 10%). Nel secondo caso, si tratterebbe di coinvolgere Berlusconi nel governo ma con una posizione defilata (anche perché altrimenti i grillini non starebbero al gioco, visto che col Cavaliere non vogliono avere nulla a che fare in modo diretto), secondo lo schema che già si è realizzato con l’elezione dei Presidenti di Camera e Senato: un’intesa alla quale Berlusconi si è dovuto adeguare ottenendo in cambio la presidenza di Palazzo Madama ma non con il candidato da lui favorito bensì con quello che aveva il gradimento di Salvini e Di Maio.
Alla luce del comportamento tenuto sino ad ora nei confronti di Berlusconi, un misto di sfida aperta e di professione di lealtà, è probabile che Salvini preferisca la collaborazione alla rottura. Anche perché sa che il tempo ormai lavora a suo favore. Forzare il corso naturale della politica non conviene mai. D’altro canto, Salvini sa anche che Berlusconi in questo momento – specie se dovesse perdurare l’atteggiamento isolazionista del Partito democratico – non ha molte sponde cui appoggiarsi o carte da giocare. Sa inoltre che il Cavaliere – col clima euforico che si respira tra gli elettori di centrodestra – non può e non vuole assumersi la responsabilità di uno strappo, che gli verrebbe rimproverato come un tradimento (lo prova il repentino dietrofront alla vigilia del voto per i vertici del Parlamento: prima l’annuncio che l’alleanza con la Lega era finita, poi l’accordo alle condizioni di quest’ultima). Ma Salvini sa anche che Berlusconi in questo momento tutto vuole meno che tornare alle urne, che sarebbe l’obiettivo politico inevitabile di un governo a tempo o di scopo sostenuto unicamente dalla Lega e dal M5S.
Se Berlusconi ha interesse a stare nel governo nascente, pena una definitiva marginalità, Salvini ha interesse a coinvolgerlo, sapendo che tanto toccheranno a lui le decisioni importanti (nella fase delle trattative come in quella della scelta degli eventuali ministri), ma anche perché da solo sarebbe troppo debole nei confronti della corazzata grillina (e questo è un punto a favore del Cavaliere).
L’incastro come si vede è complesso, ma non impossibile, visto che si basa su un insieme di ragionevoli convenienze. Oltre ad avere una sua intrinseca razionalità e plausibilità politica. Alla fine il centrodestra (come coalizione) e il M5S sono le due cospicue minoranze uscite vincitrici da questo voto: non potendo governare da sole hanno dunque la responsabilità di provare a fare un governo insieme (tanti più che il Pd, come detto, si chiama fuori da tutto). E di farlo nell’unico modo possibile: mettendosi intorno ad un tavolo alla ricerca dei punti su cui si può trovare un pragmatico compromesso o accordo. Certo non la riforma della giustizia, ma non si è fatta in un quarto di secolo e dunque si potrà aspettare ancora. Ma su immigrazione, costi della politica, richieste all’Europa di una maggiore flessibilità, politiche di sostegno agli italiani bisognosi e in difficoltà, politiche per la famiglia, terreni possibili d’intesa ce ne sono diversi. Di un governo così Salvini non potrà essere la guida politica (per la stessa ragione per cui non può esserlo Di Maio: sono leadership che naturalmente si elidono e che non hanno potere aggregante verso l’esterno), ma potrebbe esserne il regista e il tessitore, in filo diretto costante con il capo grillino. Si dirà che non è una prospettiva politica esaltante e che un simile governo non è quello che serve all’Italia. Ma in cucina, come in politica, si realizzano le pietanze con ciò che si ha in dispensa. Anche la pizza di Gracco a vederla sembra brutta e immangiabile, con tutti quegli ingredienti che sembrano messi a caso, ma chi l’ha assaggiata dice che sia persino buona.
Lascia un commento