di Giuliano Gioberti

In un panorama politico oltremodo statico e stagnante, qual è quello italiano ormai da molti mesi, le primarie del Partito democratico rappresentano un oggettivo fattore di novità e di dinamismo, al quale guardare con grande attenzione.

Merito innanzitutto della candidatura di Matteo Renzi, che se da un lato ha creato scompiglio e non poche preoccupazioni tra gli oligarchi del suo partito (tutti compattamente schierati, almeno sulla carta, a sostegno di Pierluigi Bersani), dall’altro ha creato curiosità e attenzione, non solo a sinistra, per quel suo proporsi nelle vesti di un innovatore radicale già a partire dal linguaggio che usa. Se è vero che gli italiani desiderano il cambiamento e non ne possono più di un ceto di professionisti della politica che ha in gran parte dato pessima prova di sé, il sindaco di Firenze è colui che certamente meglio interpreta questo sentimento in una chiave che possa essere considerata politicamente spendibile, laddove gli insulti di Grillo al Parlamento e alla casta rischiano invece di restare, se mai dovessero tradursi in seggi parlamentari, una forma di protesta tanto veemente quanto sterile.

Ma proprio perché le primarie della sinistra si sono caricate, strada facendo, di un significato politico sempre più grande – non solo lo scontro generazionale tra il “rottamatore” e la vecchia guardia di matrice comunista e democristiana, ma anche il confronto culturale e programmatico tra una sinistra di stampo “liberal” ed una tradizionalmente socialdemocratica, tra la sinistra post-berlusconiana e quella anti-berlusconiana – c’è da restare perplessi a vedere come si sta sviluppando la competizione tra i democratici.

Prendiamo, ad esempio, la questione cosiddetta delle regole. Sulle primarie come strumento non solo di partecipazione popolare, ma anche e soprattutto di selezione interna dei gruppi dirigenti e dei candidati, a tutti i livelli, il Pd ha scommesso ormai da anni, diversamente da ciò che ha fatto il centrodestra, che ha invece scelto di fare affidamento sul carisma – ritenuto inossidabile – di Silvio Berlusconi per vincere al centro e su più tradizionali criteri di selezione del proprio personale politico a livello territoriale. Nel corso del tempo, nelle diverse occasioni in cui questo strumento è stato utilizzato, al centro come in periferia, si è però visto che esso presentava non pochi aspetti controversi e problematici, che avrebbero dovuto suggerire la messa a punto di procedure e meccanismi vincolanti e validi una volta per tutte, in grado di evitare intoppi, imbrogli e distorsioni.

Dall’esperienza di questi anni sembra invece che i criteri di svolgimento delle primarie siano destinati a cambiare ad ogni appuntamento ovvero debbano essere considerati talmente vaghi e incerti da rendere possibile, al dunque, anche effetti politicamente discorsivi o indesiderati. Chiedersi, come sta oggi accadendo, se le primarie debbano essere di partito o di coalizione (quando peraltro una coalizione chiara ancora nemmeno esiste), è un chiaro segno di confusione e incertezza, visto che le primarie – per definizione e come accade ovunque nel mondo – non possono essere che un affare interno al partito che le promuove. Così come appare incomprensibile la discussione, che ogni volta si innesca nel Pd, su chi possano o debbano essere i votanti: se i soli iscritti, se anche i simpatizzanti (purché si impegnino a sottoscrivere una dichiarazione di voto o di sostegno al partito) o magari chiunque, documento alla mano, si presenti al seggio. Non sarebbe il caso di decidere una volta per tutte su tali questioni, sulla base di norme che siano al tempo stesso trasparenti e inderogabili?

Stupisce dunque che, a circa due mesi dalle primarie che sulla carta dovrebbero decidere il candidato del Pd alla guida del Paese, ancora non si sappia quale sarà l’effettiva base elettorale alla quale i contendenti potranno rivolgersi e, ancora peggio, quali saranno i criteri e le modalità con cui verrà espresso il voto e sarà determinato il vincitore. Il che autorizza, evidentemente, i cattivi pensieri. La discussione in corso su cosa sia preferibile – se il turno unico o il doppio turno: nel primo caso vince il più votato, nel secondo vanno al ballottaggio i due che hanno ottenuto più consensi – non nasconde forse la tentazione, da parte dell’attuale gruppo dirigente, di trovare l’inghippo tecnico per rendere se non più facile la vittoria di Bersani certamente più difficile la rincorsa di Renzi? Un partito che ha scelto di utilizzare le primarie in modo ricorrente – e che si vanta di questo con gli avversari – certe cose non dovrebbe stabilirle per tempo e in modo incontrovertibile?

Ma non è solo questo il punto. Stupisce anche il modo con cui un appuntamento tanto importante rischia di essere vissuto dal Pd e dalle sue molte anime. Vale a dire come una specie di passerella politica per le diverse correnti che lo compongono, come una tribuna per dare voce alle posizioni dissidenti o minoritarie o peggio come una vetrina per le ambizioni personali di questo o quello. Le primarie correttamente intese servono a scegliere il candidato ritenuto migliore in vista di una competizione elettorale. Non possono essere considerate il succedaneo di un congresso di partito o uno strumento per contarsi all’interno di quest’ultimo o per regolare partite – nemmeno politiche, ma addirittura personali – che nulla c’entrano con la sfida alle urne.

Rischia dunque di risolversi in un boomerang politico-propagandistico a vantaggio del centrodestra (che ha sempre giudicato le primarie l’espressione del caos e della frammentazione che caratterizzerebbe il Pd e la sinistra), l’affollarsi di aspiranti e candidati, alcuni francamente improbabili, cui stiamo assistendo in queste ore. Si parla di dieci e più partecipanti, alcuni dei quali nemmeno iscritti al partito, il che imporrebbe, tra l’altro, regole cogenti non solo per gli elettori, ma anche per gli aspiranti candidati. Per qualcuno questa corsa a candidarsi sarebbe addirittura un segno di vitalità democratica, che potrebbe persino servire a riconciliare i cittadini con la politica. Ma il rischio è che tutto si risolva in una baraonda con molti nomi in ballo e poche idee sulle quali confrontarsi davvero. Per il Pd sarebbe un’occasione malamente sprecata.

Viene persino il sospetto – nel qual caso saremmo all’autolesionismo travestito da scaltrezza – che certe candidature delle quali tanto si parla siano pilotate ad arte, con l’intento di diluire o peggio sminuire la vera posta politica in gioco in quest’appuntamento. Dovrebbe essere chiaro a tutti, infatti, che le prossime primarie del Pd – le prime a livello nazionale senza un esito predefinito o un vincitore già consacrato, come è accaduto ben tre volte nel passato con i trionfi organizzati a tavolino di Prodi (2005), Veltroni (2007) e Bersani (2009) – conteranno politicamente solo per via dello scontro tra Bersani e Renzi e per la sfida che quest’ultimo ha lanciato al gruppo dirigente del suo partito e in generale alla politica italiana. Con tutto il rispetto, ma di conoscere ciò che pensano sul governo del Paese e sul futuro della sinistra Pippo Civati, Laura Puppato o Sandro Gozi in questo momento possiamo anche fare a meno. Avranno altre occasioni e altre tribune per farcelo sapere.

 

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)