di Alessandro Campi
Ieri si sono viste all’opera le due facce dell’Europa: quella pragmatica, che prova ad affrontare i problemi che attraversano le società contemporanee e toccano direttamente la vita dei cittadini; e quella moralistico-pedagogica, che dietro le grandi battaglie sui diritti e i valori nasconde spesso un dogmatismo a sfondo religioso che è il contrario delle libertà che si vorrebbero difendere.
Il voto del Parlamento europeo sul diritto d’autore, arrivato dopo molte polemiche,
di Alessandro Campi

Ieri si sono viste all’opera le due facce dell’Europa: quella pragmatica, che prova ad affrontare i problemi che attraversano le società contemporanee e toccano direttamente la vita dei cittadini; e quella moralistico-pedagogica, che dietro le grandi battaglie sui diritti e i valori nasconde spesso un dogmatismo a sfondo religioso che è il contrario delle libertà che si vorrebbero difendere.

Il voto del Parlamento europeo sul diritto d’autore, arrivato dopo molte polemiche, ha sancito l’idea che anche in Rete la creatività intellettuale debba essere difesa e adeguatamente compensata. Sinora, con la scusa del libero e incondizionato accesso di tutti a tutto, si era nella sostanza favorito lo sfruttamento commerciale da parte dei giganti del web dei contenuti informativi e giornalistici prodotti dal sistema dei media tradizionale. L’anarchia, ovvero la mancanza di regole e limiti, favorisce sempre i gruppi organizzati che tendono al monopolio. Stupisce da questo punto di vista l’atteggiamento del M5S: anche ieri i suoi parlamentari hanno gridato alla censura senza chiedersi (o facendo finta di non sapere) quali interessi, spesso opachi, sicuramente miliardari, si nascondano dietro il far-west digitale che essi si ostinano a presentare come la quintessenza della vera democrazia.

Nell’immediato futuro piattaforme di condivisione e aggregatori di notizie dovranno invece spartire equamente i loro guadagni con artisti, giornalisti ed editori. Davvero non si capisce dove stia lo scandalo o l’attentato alla libertà d’espressione, tenuto anche conto del fatto che le enciclopedie online senza fini commerciali (come Wikipedia) e le piattaforme per la condivisione di software open source saranno esentate dal rispetto delle nuove regole sul copyright. A meno che non si ritenga normale e “democratico”, come è avvenuto sino ad oggi, che qualcuno possa arricchirsi col lavoro intellettuale altrui. I diritti d’autore, ampiamente tutelati nel mondo reale, perché non dovrebbero esserlo in quello virtuale? Quanto ai cittadini e agli utenti, il loro problema – come ormai si è capito – non è avere informazioni d’ogni tipo purché gratuite e facilmente accessibili, ma averne di attendibili e serie. La falsità di molta della merce che attualmente circola in Rete non è forse l’attentato peggiore che si possa fare alla vita democratica e all’autonomia di giudizio dei singoli?

Ma ieri l’assemblea di Strasburgo – mostrando in questo caso la sua faccia al tempo stesso ideologicamente settaria e politicamente poco lungimirante –  ha anche approvato la risoluzione con cui si chiede al Consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Ue di attivare contro l’Ungheria (colpevole d’aver gravemente derogato ai valori di pluralismo e tolleranza su cui l’Europa s’è costruita) la procedura prevista dall’articolo 7 del Trattato dell’Unione Europea e che come sanzione estrema prevede la sospensione del diritto di voto in seno al Consiglio.

Accusata d’essere debole e passiva contro l’avanzata dei populismi che minacciano i regimi liberali, ieri l’Europa (la sua parte più civile e democratica) avrebbe in realtà trasmesso un segnale di vitalità e autorevolezza. L’errore dell, il nemico interno capofila dei sovranisti che vorrebbero distruggere l’Europa per conto di Trump e Putin, è stato pubblicamente isolato. Ma davvero la votazione di ieri è stata un segnale di forza politica e una decisione capace di mettere in difficoltà il fronte cosiddetto populista? D’altro canto, il bando contro Orbán basterà a risolvere la crisi di fiducia e credibilità che da anni attanaglia le istituzioni europee o a ricomporre la frattura geopolitica e culturale che ormai esiste fra il blocco europeo occidentale e quello orientale e che non può essere considerata solo il frutto delle differenze visioni che essi hanno in materia di immigrazione? Basta convincersi (e convincere l’opinione pubblica) che Orbán sia uno xenofobo e un potenziale dittatore per rimuovere o neutralizzare il malessere psicologico e le inquietudini politiche che alimentano i movimenti populisti ormai ovunque in Europa?

Sul piano pratico, bisognerebbe innanzitutto chiedersi quanto realmente funzionino – specie dopo quel che è successo in Italia con la vittoria alle elezioni di leghisti e grillini – gli appelli a coalizzare i buoni democratici (d’ogni colore politico) contro i cattivi populisti. Se il problema contingente è arginare questi ultimi in vista delle prossime elezioni europee forse bisognerà inventarsi qualcosa di diverso rispetto a campagne allarmistiche e a grandi coalizioni repubblicane alle quali gli elettori per primi risultano ormai insensibili. Anche le strategie di demonizzazione sembrano lasciare il tempo che trovano. Le sanzioni decise già nel 2000 contro il governo austriaco guidato da Wolfang Schussel e appoggiato da Joerg Haider a distanza di anni hanno tutt’altro che fermato i populisti in quel Paese. Gli ungheresi cederanno questa volta alla pedagogia di Bruxelles e smetteranno di credere in Orbán dopo averlo eletto già quattro volte o si convinceranno definitivamente che, come ha detto ieri intervenendo in aula, il suo unico scopo è difendere la nazione ungherese contro coloro che vogliono distruggerla?

Un’ossessione identitaria che per molti osservatori sa di razzismo e di fascismo, ma che in realtà nasconde una frattura politico-culturale che spiega molti dei contrasti e dei risentimenti che attualmente attraversano l’Europa. Bisognerebbe infatti stare attenti all’imbroglio intellettuale o alle semplificazioni di chi, per eccesso di zelo politico, vorrebbe buttare l’acqua sporca del nazionalismo col bambino (si fa per dire, visti i secoli che ha alle spalle) dello Stato-nazione. O convincere l’opinione pubblica che nel Vecchio continente ormai ci si divide – come ha sostenuto di recente Nadia Urbinati – tra difensori del tribalismo e partigiani dell’umanità, come se in mezzo a queste due forme estreme d’aggregazione politica (il clan etnico e il mondo globale) non ci sia ormai nient’altro.

Ci sono in realtà le nazioni e gli Stati che dell’Europa sono il fondamento storico-spirituale ma che un certo europeismo messianico tende invece a considerare un ostacolo sulla via di una compiuta integrazione continentale: una forma di sentimento o appartenenza collettiva da rimuovere come realtà vitale o da ridurre ad una dimensione puramente formalistica (il patriottismo costituzionale) o folcloristica.

La democrazia illiberale d’ispirazione cristiana di cui ciancia Orbán nei suoi comizi è chiaramente una truffa intellettuale. Ma il fatto che egli sia un difensore poco credibile o addirittura in malafede del diritto dei popoli a salvaguardare la loro identità culturale e la loro sovranità politica aggrava paradossalmente le colpe di coloro – socialisti, popolari, liberali – che hanno lasciato ai leader populisti (e a dottrinari grossolani alla Steve Bannon) l’esclusiva su simili temi. Storicamente lo Stato-nazione ha rappresentato, in particolare nell’esperienza dei Paesi occidentali, il baluardo delle libertà personali e della democrazia. Averne fatto un sinonimo di razzismo e una forma di particolarismo intollerante è il capolavoro ideologico perverso di un’Europa che evidentemente non si riconosce più nella sua stessa storia e che forse proprio per questo ha smesso di suscitare passioni autentiche e speranze nel futuro. Un’Europa che appunto ieri ci ha mostrato quanto essa possa essere utile ai suoi cittadini, allorché opera con spirito pratico, e quanto invece rischi di essere dannosa alla sua stessa causa, allorché si erge a modello astratto di civiltà.

*Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 13 settembre 2018.

 

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