di Matteo Chiavarone*
Quest’estate Andrea Cortellessa, sul Corriere della Sera, ha proposto un dibattito sul mondo in versi tra mito e mercato parlando della poesia come forma espressiva emarginata da media e potere.
L’esclusione della poesia contemporanea dal dibattito culturale è una problematica reale che trova alcune risposte peculiari, se così si possono definire, in alcuni meccanismi dell’editoria comprensibili perlopiù soltanto agli addetti ai lavori e che potrebbero interessare successive analisi.
Molto più interessante sarebbe, a mio avviso, tentare di comprendere se oggi, nel pieno della retorica del centocinquantenario dell’unità italiana, possa esistere un’identità letteraria riconosciuta e condivisa universalmente che abbia come punto di partenza un modello di letteratura contemporanea, senza confini regionali o di classe sociale.
Un’identità letteraria che non sia lo specchio fedele del nostro tempo senza curiosità ma quantomeno un’espressione dei nostri anni capace di coglierne le sfaccettature.
La letteratura italiana di ieri e di oggi – senza alcuno iato tra narrativa e poesia – non imita la realtà ma dà voce agli italiani combinando tra loro rappresentazioni e discorsi.
Ma letteratura non è identità, sono concetti che non si sovrappongono anche perché entrambi sono in continuo mutamento. Ed entrambi hanno bisogno di chiarire il concetto di “italiano”: con questo aggettivo si identifica ciò che è sorto nel nostro territorio? Ciò che è stato scritto nella nostra lingua? Ciò che si è proposto, consapevolmente o inconsapevolmente, come italiano?
Sono domande che, come ci ricorda Stefano Jossa nel suo saggio L’Italia letteraria (Il Mulino, 2006), non hanno risposte e che si ripropongono non solo per via della cosiddetta società della globalizzazione ma, molto più spesso, quando si prova ad organizzare nuove edizioni antologiche che sappiano soddisfare i bisogni dei nuovi programmi scolastici ministeriali.
Quella che sto cercando di portare all’attenzione è una problematica tutt’altro che nuova e senza soluzioni. Nel dopoguerra – terminata la stagione della cultura di regime (cortigiana o d’opposizione) – anche la letteratura ha avuto bisogno di stabilire i propri confini e trovare le proprie radici per poter ricostruire un fertile campo d’azione su cui muoversi.
In questo senso va intesa la proposta di Pier Paolo Pasolini che nel 1955 pubblicò il Canzoniere italiano, un progetto troppo spesso dimenticato dalla critica che raccoglieva, in due volumi editi dalla Garzanti, un corpus di circa ottocento testi suddivisi per regione e per aree linguistiche. L’intento era quello di portare alla luce le espressioni tipiche della cultura popolare perché “non sussiste dubbio, comunque. che, salvo le aree depresse, la tendenza del canto popolare nella nazione è a scomparire”.
La dicotomia tra letteratura “popolare”, aggettivo qui inteso come proprio di una determinata cultura locale, e letteratura “ufficiale”, intesa come espressione unitaria di una nazione, crea subito una linea d’ombra di difficile collocazione.
Nella genesi dei canti della prima guerra mondiale, forse favoriti dalla immobilità della “guerra di trincea”, i dialetti furono infatti quasi del tutto abbandonati.
Scrive Pasolini: “L’allure militaresca […] passerà poi nei canti fascisti: tutti semicolti, addirittura dannunziani. Né altra poteva essere la produzione di un movimento non popolare, politicamente e socialmente”.
La cultura locale e “dal basso” si espande sul territorio nazionale incalzata da fattori esterni provenienti “dall’alto” che ne contamineranno la natura. Un esempio si può riscontrare proprio in D’Annunzio: poeta vate e uomo simbolo del regime politico già molti anni prima dell’ascesa di Mussolini, riconosciuto universalmente dal Piemonte alla Sicilia, esprime più che nella letteratura nella sua figura “eroica” e positiva l’idea stessa di unità nazionale.
Nell’Italia contadina e analfabeta “la cultura popolare tradizionale ha dato dei canti implicanti necessariamente la soggezione inattiva della classe dominante: una sua inattiva aspirazione ai privilegi della classe dominante (lingua speciale compresa), e la sua ascesa a questa attraverso le vie irrazionali del sentimento e delle istituzioni stilistiche”.
Se Dante, Petrarca e Boccaccio rappresentarono per l’aristocrazia ottocentesca come simboli di quel mito unitario che avrebbe portato ai moti indipendentisti, D’Annunzio, borghese ma capace di comunicare alle classi subalterne, rappresentò il trait d’union tra l’idea politica e la realizzazione effettiva dell’identità nazionale italiana.
D’Annunzio più di Carducci, suo predecessore e uomo troppo immischiato nel battage politico.
D’Annunzio più di Pascoli, il quale – nonostante abbia influito maggiormente, separandoci finalmente dal monopolio petrarchesco della poesia italiana, sulle generazioni letterarie successive – non riuscì a creare una propria immagine vincente, incapace di cogliere su se stesso gli elementi più “mediatici” dell’estetismo decadente.
La lezione dannunziana che conduce alla creazione di un personaggio-uomo che si sovrappone e si separa al tempo stesso dal personaggio-autore è compresa dai contemporanei e dagli autori successivi.
Prova a seguirne le ombre Curzio Malaparte, l’opposto dello scrittore al di sopra delle parti, calato nella mischia, “catilinario” di vocazione. Ma senza riuscire nell’intento: gli elementi esibizionistici, i capovolgimenti di fronte, le ambiguità irrisolute fanno di Malaparte, come lo definì acutamente Sergio Campailla nel volume Controcodice (Edizioni Scientifiche Italiane, 2001), un “D’Annunzio che forse vorrebbe essere un Hemingway, con l’inclinazione al paradosso di un Oscar Wilde. In formato minore sia come D’Annunzio che come Hemingway che come Wilde”.
Il pregio di Malaparte è di comprendere prima di altri quello che Pasolini intuì scrivendo nel ‘55 che “Il popolo moderno […] cosciente di sé in quanto classe, e politicamente organizzato verso la conquista del potere, tende ad abolire l’irrazionale soggezione in cui per tanti secoli era vissuto: tende ad essere autonomo, autosufficiente nell’ambito ideologico: a dissimilarsi”.
Anche per questo D’Annunzio, primo vero autore moderno ma ancora legato alla tradizione precedente, è l’ultimo “poeta vate” della letteratura italiana (fatta eccezione forse per Ungaretti ma con modalità totalmente diverse).
Dopo il fascismo è quasi naturale che l’identità nazionale non sia più profondamente legata al discorso letterario. Finita la stagione di riviste come Strapaese e L’Italiano scompare con essa quel mito che portò alla promozione di un’Italia che “grazie a Dio e a Mussolini […] non è tutta borghese, europeista e pariginale”(Curzio Malaparte, Il Selvaggio, 1927).
Contro le retoriche risorgimentali e fasciste si scagliò Prezzolini già nel ’48 (in The legacy of Italy, tradotto da noi solo dieci anni dopo con il titolo L’Italia finisce) ma forse l’elemento più interessante della sua invettiva è proprio la contrapposizione tra “l’Italia culturale, fatta di persone” e “l’Italia politica, fatta di idee per costruire un’immagine di un’Italia di individui, plurale, di contro alla retorica dell’Italia di stampo laico, liberale e socialista che in quegli anni gli intellettuali andavano edificando” (L’Italia letteraria, p. 31).
La letteratura, come la musica d’altronde che nel Novecento diviene la forma espressiva che più di altre rimanda ai canoni popolari precedenti (interessante in questo senso il saggio La storia leggera di Stefano Pivato edito da Il Mulino nel 2002), non riesce a svincolarsi da una obbligatoria canalizzazione politica.
L’idea di Italia di un Carlo Levi, per cui l’identità nazionale vive nelle sue forme artistiche e nella sua memoria (Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’Italia, L’arte degli italiani e, in parte, anche in Cristo si è fermato ad Eboli), o quella di un Garboli per cui, accettando il gusto della provocazione, l’Italia letteraria non è percepita affatto come un valore ma come fonte di debolezza, non possono essere accettati da tutti.
Ne è un esempio lo scarso valore identitario che ha suscitato la vittoria del premio Nobel per la letteratura di Dario Fo: quella che in altri tempi sarebbe diventato un trionfo nazionale si è ridotto ad un riconoscimento partigiano, come se una parte cospicua di italiani non si identificasse affatto con quell’onorificenza.
Se accettiamo questa frammentazione tra diverse “letterature” provocata dalla politica, dal mercato e dalla globalizzazione, capace oramai di penetrare violentemente nelle espressioni culturali locali, e se consideriamo che quasi due secoli fa, nel 1827, Goethe già affermava, in un colloquio con Eckermann, che “Letteratura nazionale non vuol dire più molto; s’approssima il tempo di una letteratura universale, e tutti devono adoperarsi per affrettare quest’epoca”, dobbiamo fare veramente uno sforzo a ricercare in quest’Italia – che non si adopera in funerali di stato per Sanguineti, uno dei nostri maggiori poeti contemporanei, e che, con anni di manovre finanziarie suicide, sta vedendo sgretolare sotto i piedi il suo sistema scolastico – un’identità letteraria che non faccia del nostro paese soltanto una “espressione geografica”. Sarebbe interessante, a mio avviso, provare a cercarla.
Scrittore, editore, blogger e storico della letteratura