di Alessandro Campi
Dopo lo scandalo che ha investito la Regione Lazio qual è la reale condizione del Pdl? I sondaggi dell’ultima ora danno il partito guidato da Angelino Alfano – che nel luglio del 2011, al momento del suo insediamento, aveva immaginato di poter costruire il “partito degli onesti”: quando si dice l’ironia della storia! – al di sotto ormai della soglia critica del 20%. Ammesso che l’annuncio di una ricandidatura berlusconiana per le elezioni politiche del 2013 abbia fatto recuperare qualche consenso al Pdl nel corso delle ultime settimane, cosa della quale molti osservatori dubitano, la brutta vicenda che ha portato alle dimissioni di Renata Polverini gli ha di sicuro alienato parecchi voti moderati, destinati con ogni probabilità a gonfiare l’area della protesta e dell’astensionismo. Per non dire del danno di immagine e di credibilità che ne è derivato, particolarmente grave per un partito che nel recente passato – a causa del comportamento spesso disinvolto di alcuni suoi dirigenti e amministratori – è stato più volte al centro di sospetti, accuse e inchieste giudiziarie.
Silvio Berlusconi ha provato ieri ad esorcizzare la difficile condizione in cui sembra versare il Pdl:«No, non siamo allo sbaraglio», ha detto ai giornalisti, smentendo in questo modo chi – come ad esempio Gianni Alemanno – un paio di giorni fa aveva chiesto un “azzeramento totale” della principale formazione del centrodestra ed una sua rifondazione su basi, valoriali ed organizzative, totalmente nuove. Ma basta negare la realtà per cambiarla in meglio e renderla meno amara, secondo una tecnica spesso sperimentata dal Cavaliere nel passato?
Il Pdl, come si ricorderà, è nato formalmente nel marzo del 2009. Doveva rappresentare la sintesi – culturale e organizzativa – di tutte le tradizioni e correnti politiche che nel corso degli anni si era riconosciute, a vario titolo, nella leadership berlusconiana. Ma con la defezione di Casini e il diniego della Lega, il progetto di un partito unico (o unitario) dei moderati, teatralmente annunciato dal Cavaliere in piazza San Babila a Milano sin dal novembre del 2007, finì per coinvolgere, pressoché esclusivamente, Forza Italia e Alleanza nazionale, che si spartirono incarichi e poltrone nel nuovo partito in virtù della rispettiva forza elettorale e sulla base di un ferreo accordo legale.
Soprattutto apparve chiaro, sin dai primi mesi di vita della nuova formazione, che il Pdl era da considerare – almeno nelle intenzioni di Silvio Berlusconi – un’estensione della vecchia Forza Italia: un partito dunque governato secondo criteri verticistici e padronali, basato sul principio del centralismo carismatico, nel quale poco o nessuno spazio sarebbe stato concesso alla dissidenza o a una qualunque minoranza interna. L’espulsione di Fini – accusato di slealtà per aver messo pubblicamente in discussione la linea politica di Berlusconi – fu appunto la certificazione che il Pdl aveva assai poco di liberale e di plurale, a dispetto delle ambizioni che ne avevano accompagnato la nascita, ed era piuttosto una struttura monocratica e priva di regole di funzionamento, poco interessata alla dialettica tra correnti e al confronto di idee.
Da allora, anche per contenere gli effetti negativi di quella drammatica frattura interna, che non poco ha contribuito alla fragilità dimostrata nei mesi successivi dal governo Berlusconi, il Pdl ha cercato più volte di assumere una fisionomia meno eccentrica e più consona ad un grande partito democratico e di massa . Ad esempio, la curiosa e inefficace struttura di vertice che lo governava – un tridente che non aveva alcun precedente nella storia dei partiti occidentali – è stata azzerata e sostituita da una segreteria unitaria, quella appunto di Alfano, che però è stata il frutto non di una competizione interna e di un’elezione dal basso, ma di una designazione di stampo monarchico accompagnata da una sommaria acclamazione della nomenclatura di partito, che ha finito per renderla poco autorevole.
Ma nel corso dei mesi altro si è fatto per accreditarsi come un partito “normale”. Si è parlato di ricorrere alle primarie per la selezione dei candidati a livello territoriale, ad imitazione della sinistra. Si è discusso di come ridurre lo strapotere di alcuni potentati locali, che hanno finito per rendere il Pdl un partito al tempo stesso verticistico al centro e anarchico in periferia, unito all’apparenza nel nome di Berlusconi (l’unico tabù di un partito dove ognuno sembra andare per proprio conto) ma al tempo stesso attraverso da furibonde lotte intestine (quelle stesse che hanno prodotto la caduta della Polverini). Si è data l’impressione di volersi impegnare in una seria azione di pulizia interna, per eliminare corrotti e affaristi e per smetterla con l’immagine di un partito che ha spesso accolto nei suoi ranghi cortigiane e personalità di dubbio spessore morale. Si è detto di voler aprire le porte ai giovani, di voler riscoprire lo spirito delle battaglie liberali e modernizzatrici che erano state all’origine del berlusconismo e di voler affermare un nuovo stile politico basato su un rapporto più diretto e immediato tra elettore ed eletto, su una maggiore partecipazione dei cittadini nei processi decisionali, sulla trasparenza dei comportamenti e sul rifiuto dei privilegi di casta.
Il problema è che tutti questi lodevoli propositi sono rimasti sulla carta, sino a fare del partito berlusconiano l’emblema di quella politica vecchia e cattiva, corrotta e inefficace, che gli italiani ormai disprezzano con tutto il cuore. Per come sempre più emerge dalla cronaca, il Pdl sembrerebbe una creatura politica sfuggita di mano e in preda al caos: difficile da correggere, da guidare e persino da mettere in liquidazione, come forse Berlusconi vorrebbe in cuor suo. Nelle settimane scorse, quest’ultimo ha dato più volte l’impressione di volersi liberare da un partito che a suo dire è divenuto una brutta copia di quelli, litigiosi e famelici, della Prima Repubblica. Si è dunque parlato di un nuovo predellino che dovrebbe portare in tempi brevi, certamente prima dell’ormai imminente voto nazionale, alla costituzione di una nuova sigla politica e di una struttura organizzativa più agile, da affidare alla guida di una nuova generazione di dirigenti e attivisti. Quale momento sarebbe in effetti più propizio dell’attuale per una simile rivoluzione, se non fosse che il tempo degli annunci e dei colpi di teatro sembra finito anche per Berlusconi il mago?
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