di Carlo Marsonet
La lezione di Luciano Pellicani sull’importanza della libertà e del suo rapporto con l’Occidente è ora attuale più che mai. In tempi di acuita incertezza dovuta alla pandemia, la nostra civiltà rischia di smarrirsi – o forse è già smarrita da un pezzo. Non si tratta né di essere pessimisti né di essere – stolidamente – ottimisti: guardare in faccia la realtà significa intravedere i pericoli che la libertà corre ora, come ha sempre corso del resto.
Perché se vi è una costante in seno alla società occidentale, tale è l’eterna lotta tra società aperta e società chiusa: una battaglia tra due antitetici modi di concepire la società e dunque la civiltà. Prima ancora che attaccata dall’esterno, l’idea di società aperta basata sull’individualismo, sull’economia di mercato, sulla dispersione del potere è, infatti, incessantemente combattuta dal suo interno: per questo tale lotta è ancora più insidiosa. Ma, si sa, la conflittualità permanente è proprio uno dei principi grazia al quale l’Occidente è ciò che è (in comparazione alle altre aree culturali): più prospera, (relativamente) più sicura, più libera.
L’opera postuma di Luciano Pellicani Perché in Occidente c’è più libertà che in Oriente? (Rubbettino 2020, con una bella introduzione di Florindo Rubbettino: il testo raccoglie l’ultimo intervento pubblico che il sociologo tenne al festival estivo di Sciabaca) serve da monito. In definitiva, lo studioso da poco mancato ci ha lasciato con l’ennesima riflessione su quello che è – o, perlomeno, dovrebbe essere – più caro alla civiltà occidentale: la libertà. Essa, in poche parole, è la peculiarità cardine della nostra cultura, tale per cui Fernand Braudel, nota l’Autore, ipotizzando l’esistenza di un grandioso cervello elettronico dotato di ogni informazione sulle diverse civiltà – Pellicani si muove nel solco del ragionamento di Arnold Toynbee, il quale discettava in termini di civiltà e non di singoli stati – alla sollecitazione sull’Occidente avrebbe fatto ricorso copiosamente ed insistentemente proprio alla parola “libertà”.
Essa ha reso possibile lo sviluppo materiale ed intellettuale di questa parte del mondo giacché ha istituzionalizzato il conflitto, posto in essere le condizioni per la dispersione del potere, promosso l’autonomia della società civile e la sua dinamicità. E, come ricorda il pensatore pugliese in un altro importante volume (L’Occidente e i suoi nemici, sempre edito da Rubbettino, come la maggior parte dei suoi lavori), tutto il progresso della società occidentale deriva da ciò: «chi afferma che la superiorità dell’Occidente rispetto alle altre civiltà risiede solo nella sua potenza tecnologica, scambia l’effetto per la causa. L’Occidente – non lo si ripeterà mai abbastanza – è diventato ricco e potente grazie alle sue istituzioni politiche che hanno reso possibile l’emergere e la diffusione della cultura dell’autonomia individuale».
Altre civiltà sono state ricche e hanno conosciuto un progresso notevole. Pellicani ricorda la civiltà islamica e quella cinese, ad esempio. Non è questo il punto, tuttavia. La questione è che la presenza di stringenti limiti al potere sovrano – cioè a dire la libertà e il diritto di proprietà – è una caratteristica unica che ha contraddistinto l’Occidente. Grazie ad essi, la società civile si è affrancata dalla gabbia imbrigliatrice del potere politico e si è sviluppata. Le “città autocefale” del periodo medievale, come le ebbe a chiamare Max Weber, e il loro conflitto con il potere signorile hanno posto in essere le condizioni da cui è scaturito il capitalismo, sottraendosi alla “megamacchina” statale.
Come ha scritto Jean Baechler, «le libertà politiche hanno fondato la prosperità in Occidente». Non è un caso che Pellicani, allora, citi il cosiddetto “Signore di Shang”. Un mandarino che nel III secolo a.C. scrisse un libro in cui delineò una ben chiara e paradigmatica distinzione: l’anarchia è data da un popolo forte e da uno stato debole; l’ordine sociale, viceversa, da un popolo debole e da uno stato forte. Quello che può essere definito come una sorta di Hobbes cinese, dunque, avendo a cuore un ordine armonioso e pacificato – si badi: per definizione una società tendenzialmente libera è agitata, in quanto sarà attraversata da conflitti, movimento, dinamismo – non vide che una soluzione: quella di tarpare le ali della libertà a tutto ciò che era al di fuori del potere politico, ovvero alla società civile. Ciò è esattamente il modo più sicuro per soffocare quella vitalità che ha reso possibile lo sviluppo occidentale, frutto della dispersione del potere, data in primo luogo da una proprietà privata diffusa e policentrica – come vide bene Proudhon nell’opera postuma La teoria della proprietà, che Pellicani non manca di citare – e dunque dalla libera iniziativa individuale.
In definitiva, se l’Occidente non saprà riappropriarsi saldamente e tenacemente di ciò che le è proprio, correrà l’alea (esagerando un po’) di diventare una sorta di succursale di altre aree culturali. Ibn Khaldun, uno storico islamico del XIV secolo, cui l’Autore si rifà, notò in modo profetico, quasi ad anticipare Adam Smith, che la civiltà islamica sarebbe perita se non fossero stati posti dei freni all’espansionismo del potere politico.
Giova allora terminare con le parole con cui Baechler concluse Le origini del capitalismo: «La mia profonda convinzione è che da un millennio l’Occidente è la sede privilegiata di mutamenti, rivoluzioni e sperimentazioni particolarmente audaci in tutti i campi, e questo ha offerto all’avventura umana dimensioni insospettate altrove, e che questa diversità e questa instabilità sono legate al pluralismo politico, e non si sperare di sopprimere le manifestazioni del pluralismo senza distruggere il pluralismo stesso. Sono state le libertà a fondare la grandezza dell’Occidente e a imporgli un pesantissimo fardello, poiché la libertà riposa su una difficile padronanza di sé: non è così certo che la maggioranza la pretenda e non preferisca, invece, la soggezione». La lotta tra Atene e Sparta, ci ricorda Pellicani, è e sarà sempre tra noi.
Carlo Marsonet, PhD candidate in “Politics: History, Theory, Science”, Luiss Guido Carli, Roma
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