di Dino Messina
Dalla metà degli anni Settanta del Novecento – da quando Luisa Mangoni pubblicò L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo ed Emilio Gentile diede alle stampe Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925) – gli studi sulla dimensione ideologica e culturale del fascismo hanno conosciuto una discreta fortuna nell’ambito della storiografia italiana. Il volume di Danilo Breschi (Mussolini e la città. Il fascismo tra antiurbanesimo e modernità, Luni Editrice, 2018, pp. 576), si pone nel solco di tale indagine, affrontando un tema già parzialmente perlustrato secondo una prospettiva originale. La maggiore novità del lavoro risiede infatti nella capacità di occuparsi dell’atteggiamento tenuto dal fascismo verso l’urbanesimo tra gli anni Venti e Trenta facendo interagire diversi piani (la storia urbana e la storia dell’urbanistica e dell’architettura, per giungere all’elaborazione di una ricerca di storia delle idee) e incrociando l’analisi dei provvedimenti del regime con le ragioni e le motivazioni che stavano alla base di queste politiche di pianificazione, organizzazione e controllo del territorio. Ed è soprattutto su questo aspetto ideologico che vorrei soffermarmi nella nota che segue proprio perché uno dei propositi dell’Autore consiste nel far emergere come non tanto un generico e monolitico antiurbanesimo, quanto una più meditata e duttile contrapposizione tra la città, luogo da riformare ma non da abolire, e la campagna, spazio a cui ispirarsi ma non da idealizzare, sia un motivo di lungo periodo nella cultura politica italiana, a cui il fascismo ha abbondantemente attinto, riattandolo poi al mutato contesto e rimodulandone talvolta il linguaggio.
In fondo, si trattava della riattivazione di un dualismo antico, che aveva trovato espressione già nell’età del positivismo, in coincidenza con l’inizio di quella crisi dell’idea di progresso a cui poi la Grande guerra avrebbe inferto un colpo mortale. Secondo questo schema, da una parte stava la massa urbana, amorfa e conformista, nevrastenica e suggestionabile, incline alla violenza, rosa dal rammollimento fisico, in una parola degenerata. Di contro, stava la gente delle campagne, dedita al lavoro, legata ai valori tradizionali, e perciò non solo sana e resistente, ma anche schietta e sincera. Da qui la necessità di un processo di rigenerazione che investisse chi risiedeva nelle città, a partire dal recupero di alcuni valori considerati tipici del contado.
Il periodo della militanza socialista fu probabilmente quello durante il quale Mussolini venne in contatto con quest’immagine del rapporto tra città e campagna e l’assimilò perché, come ricorda Breschi, erano stati proprio i socialisti (anche quelli italiani, pur tenendo conto delle caratteristiche peculiari che lo sviluppo industriale e il processo di inurbamento avevano assunto nella penisola) a denunciare le degradanti condizioni non solo di lavoro, ma più in generale di vita, dei ceti popolari nei grandi centri industriali e a porre l’accento sulla necessità di un recupero igienico dell’ambiente urbano e di un rinnovamento etico e per così dire antropologico di coloro che vi abitavano. In particolare, si sottolineava frequentemente il nesso tra diffusione dell’alcolismo, pervertimento dei costumi sessuali e criminalità, a volte attraverso l’applicazione di un modello biologistico di tipo lombrosiano, altre richiamandosi ai principi della psicologia delle folle di un Le Bon e di un Sighele, altre volte ancora facendo appello a un materialismo non sempre teoreticamente avvertito.
Nella maggior parte dei casi, comunque, l’obiettivo era l’elevazione morale del proletariato attraverso l’adesione a un’etica del giusto mezzo, fondata sul lavoro, sul contenimento delle passioni e sul tentativo di indirizzare gli istinti verso il bene della società, e non verso il mero soddisfacimento di desideri egoistici, colpa che veniva invece imputata all’edonismo borghese. Questo tipo di educazione passava dal recupero della morale agreste, maggiormente incardinata sul senso del limite e della proporzione rispetto a quella cittadina. Una visione che si nutriva com’è evidente di temi letterari e ne forniva a sua volta alla letteratura, ma che non si declinava affatto nel rifiuto della città, quanto nell’esigenza di un suo perfezionamento graduale. Il lessico utilizzato era spesso desunto dalla teoria e dalla pratica medica e fisiologica, come dimostrano i frequenti riferimenti a termini quali “risanamento”, “sventramento” e “sanificazione”.
Breschi opportunamente sottolinea come era stato ancora un socialista, il belga Émile Vandervelde (non a caso di formazione medica), a utilizzare la metafora poetica della ville tentaculaire nel titolo di un saggio pubblicato nel 1899, e nello stesso anno tradotto in italiano sulla «Rivista popolare» di Napoleone Colajanni. Con quest’espressione, Vandervelde intendeva far riferimento all’espansione inarrestabile delle città, che come «piovre» sottraevano forza-lavoro alle campagne, eliminando la parte più giovane e prolifica della popolazione e determinando nelle aree rurali la diffusione di una proprietà parcellizzata o l’affermazione della grande proprietà latifondistica.
Tuttavia Vandervelde era convinto che gli investimenti dello Stato nel miglioramento dei mezzi di trasporto e delle vie di comunicazione avrebbero favorito il fenomeno del pendolarismo campagna-città e innescato un circolo virtuoso: l’abbassamento del prezzo degli affitti delle tenute contadine e l’aumento del valore economico delle terre avrebbe convinto a trasferirsi fuori dalle mura anche gli abitanti delle città, favorendo un ripopolamento del contado. Non bisognava dunque ostacolare il processo di industrializzazione, ma al contrario favorirlo perché soltanto il dispiegamento completo dell’economia capitalistica avrebbe posto le condizioni necessarie per l’avvento del socialismo e della nuova «città socialista».
Queste idee ebbero successo tra i riformisti legati alla turatiana «Critica sociale» (ma più di un loro riflesso si ritrova nell’ala massimalista e nel sindacalismo rivoluzionario), che non nascondevano peraltro le proprie simpatie anche per la proposta delle Garden Cities da parte dell’inglese Ebenezer Howard, attraverso le quali ci si riprometteva di conciliare «i vantaggi della vita cittadina» con «le gioie e le bellezze della campagna». Che non si trattasse soltanto di un’adesione teorica, lo dimostra il caso del quartiere Milanino, in cui svolse un ruolo centrale il socialista Alessandro Schiavi. Insomma, si era critici dell’industrialismo e di quella “questione sociale” che esso aveva prodotto o acuito, ma non si voleva rinunciare ai benefici della modernizzazione.
È tenendo conto di questo retroterra, oltre che della ricerca ossessiva del consenso, specie tra i ceti medi, che si può provare a spiegare secondo Breschi l’atteggiamento pragmatico e a un tempo contraddittorio che contraddistingue molti discorsi del fascismo, prima ancora della marcia su Roma. Mi limito solo a citare un esempio, tra i tanti richiamati nel testo. Nel maggio 1922, in un articolo apparso su «Gerarchia» con il titolo Il fascismo e i rurali, Mussolini rileggeva la storia dell’Italia contemporanea alla luce del conflitto fra tre categorie antropologiche, prima che socioeconomiche: i rurali, vale a dire i mezzadri e i piccoli proprietari terrieri; gli agrari, ossia i grandi proprietari; e gli abitanti della città. Il processo di unificazione nazionale, sosteneva Mussolini, era stato iniziativa e opera pressoché esclusiva della borghesia cittadina, mentre i rurali ne erano rimasti del tutto esclusi.
Questi ultimi avevano fatto il loro ingresso nella storia solo allo scoppio del primo conflitto mondiale, quando erano stati inquadrati in massa nell’esercito. Sul Carso erano allora emerse le differenze tra il soldato di campagna, che non si lamentava mai dei disagi patiti e accettava la guerra «con rassegnazione, con pazienza, con disciplina», e il soldato di città, che pretendeva di aver compreso le intime ragioni del conflitto e di condannarne l’insensatezza «in nome dell’internazionalismo». Ora, in tempo di pace, continuava Mussolini, il fascismo si proponeva di mutare la passività contadina in «una adesione attiva alla realtà e alla santità della Nazione» grazie alla diffusione del patriottismo, che da «sentimento monopolizzato (o sfruttato) dalle città» doveva diventare «patrimonio – anche – delle campagne».
Qualche tempo dopo, a settembre, Mussolini sembrava rovesciare questo modello, provando a presentarsi come moderno e progressista di fronte ai ceti medi urbani. Sul «Popolo d’Italia», in un intervento intitolato Confronti (dove il richiamo era al confronto tra l’attivismo fascista e l’immobilismo di epoca liberale), esaltava infatti la rapidità con la quale era stato costruito l’autodromo di Monza. In soli quattro mesi, scriveva, si era realizzato «un prodigio» capace di far invidia agli «americani del Nord», in cui la «volontà unica» di ideatori ed esecutori aveva avuto la meglio su quella «burocrazia ritardataria» che i socialisti idolatravano e che la realizzazione di tante opere pubbliche aveva ostacolato nell’«Italietta» giolittiana.
Anche negli anni successivi sul «Popolo d’Italia», giornale di cui Breschi propone un’analisi meticolosa e originale, si continuò a tessere l’elogio delle automobili e delle autostrade e a guardare a Londra, Parigi e agli Stati Uniti come modelli a cui avrebbero dovuto ispirarsi le città italiane, in particolare Milano, per diventare vere metropoli. Non meno intenso era il dibattito su Venezia: nell’aprile 1922 Giuseppe Roberto Mandel scriveva che se non se ne fossero migliorate le a casupole «senza sole, muffite, malsane», se non si fosse rinnovato il suo sistema di trasporti, lasciando la gondola alle «coppie in amore» (dacché gli altri non potevano permettersi di «perdere un meriggio d’affari in piacevolissimo dondolio»), se insomma non si fosse riformato «il modo di pensare dei veneziani», la città lagunare sarebbe diventata soltanto «una città-museo».
Toni futuristi, come si vede, che ricordano da vicino le affermazioni del manifesto Contro Venezia passatista, in cui si proclamava di voler «rianimare e nobilitare il popolo veneziano», «preparare la nascita di una Venezia industriale e militare» e bruciare «le gondole, poltrone da dondolo per cretini». Tuttavia, nota Breschi, se quella di Marinetti e dei suoi sodali era anzitutto una posa estetica, gli interventi sul «Popolo d’Italia» erano l’espressione di precisi interessi dell’industria e del capitale, oltre che «un bel calcolato omaggio a tutti i numerosi piccoli borghesi italiani ossessionati di modernità», come aveva scritto Giovanni Ansaldo nel giugno 1923. Di contro a questa esaltazione della «giovine Italia operosa», stavano le posizioni del «Selvaggio», la rivista fondata nel luglio del 1924 a Colle Val d’Elsa da Angelo Bencini e Mino Maccari. Portavoce, almeno fino all’allontanamento di Farinacci dalla segreteria del partito, delle rivendicazioni dello squadrismo della provincia senese, che orgogliosamente affermava di aver compiuto la rivoluzione e di aver consegnato Roma ai fascisti, la rivista dava ospitalità a una gran copia di articoli che condannavano il modo di vita borghese, l’avanzamento della tecnica e del progresso e l’americanismo, definito da Ardengo Soffici «la peste che avanza volgarizzando, rimbecillendo, imbestialendo il mondo, avvilendo e distruggendo alte, luminose, gloriose civiltà millenarie».
A queste discussioni partecipava volentieri anche Curzio Malaparte – che della polemica tra Strapaese e Stracittà fu se non l’iniziatore, uno dei suoi protagonisti più vivaci – il quale nell’Europa vivente (1923) poteva invocare per l’Italia una seconda Controriforma, dopo quella di età moderna, per evitare che lo spirito dogmatico e cattolico delle nazioni latine venisse snaturato dallo spirito critico e individualista dei popoli del Nord, introdotto da Lutero, «rozzo monaco tedesco». Va sottolineato, tuttavia, come anche nel «Selvaggio» non vi fosse una condanna integrale della «modernità», ma solo il rifiuto delle sue deviazioni artificiose, che erano bollate con il nome di «modernismo», ovvero di una concezione del mondo ispirata all’internazionalismo e all’intellettualismo. Non si era cioè contro il progresso, ma si voleva essere, secondo una formula a dir poco evasiva, «moderni secundum naturam».
Anche dopo il discorso dell’Ascensione del maggio 1927, che segnò in modo ufficiale la svolta ruralista del regime, proseguì nei dibattiti culturali e nella propaganda quest’atteggiamento ondivago, ormai sempre più in contrasto con le azioni politiche concrete e la legislazione adottata. Anzi, si può affermare che queste tendenze contrapposte assunsero un carattere ancora più drammatico, sebbene diminuirono i casi in cui fu possibile manifestarle in modo aperto. Se è vero che si salutava con favore l’opera di bonifica integrale, si plaudiva alle «battaglie» mussoliniane e si auspicava la trasformazione dell’operaio in contadino, è altrettanto vero che si distingueva tra l’urbanesimo sano e quello patologico e non si intendeva ridurre le grandi città italiane a semplici luoghi d’arte, ma farne dei centri propulsivi dell’economia del paese.
Se non per tutte le città, almeno un’eccezione andava prevista per Roma, che avrebbe dovuto guardare alle metropoli europee per assurgere a «Capitale del mondo moderno»: così almeno si esprimeva Giuseppe Bottai nel 1937, accogliendo nella capitale i convenuti al primo congresso nazionale di urbanistica. Come mostra Breschi in questo libro, che unisce lo studio rigoroso delle fonti a un’ammirevole perspicacia interpretativa, la scelta tra città e campagna si presentò tra gli anni Venti e Trenta come una battaglia sul moderno e di questa categoria condivise molti aspetti contraddittori. La diffidenza verso la città, coltivata da ampi strati della classe politica fascista, non assunse quasi mai la forma della demonizzazione dell’urbanesimo, ma si presentò semmai come il tentativo di coniugare i vantaggi del progresso tecnologico e industriale con la vitalità e la fecondità contadina in vista della costruzione di un “uomo nuovo”. Un progetto eugenetico che si trasformò ben presto in tragedia.
*Articolo già apparso su Corriere.it
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