Maurizio Griffo
Gianfranco Spadaccia, Il Partito Radicale. Sessanta anni di lotte tra memoria e storia, Sellerio, Palermo, 2022, pp. 758, ISBN 9788838942716
Non pochi e non banali sono i pregi di questo libro di Gianfranco Spadaccia, che ripercorre quasi sessanta anni di vita del Partito radicale. Di quel partito, com’è noto, Spadaccia è stato uno dei dirigenti più noti e più autorevoli. Si comprende perciò come non sia stata una impresa da poco scrivere la storia di una esperienza politica di cui si è stati per lunghissimo tempo magna pars e farlo in modo non solo da offrire una testimonianza di prima mano, ma fornendo una ricostruzione che si sforza di essere obiettiva e che comunque risulta sempre equilibrata.
A questo primo merito di ordine emotivo-relazionale se ne può aggiungere un altro di carattere più specifico. Come accade alle storie di carattere particolare, anche in questo caso per raccontare la vicenda radicale occorreva non perdere i nessi con la storia generale. Spadaccia svolge questo inquadramento in modo essenziale ma assai preciso, dando conto sobriamente degli avvenimenti politici di ogni periodo preso in esame senza smarrire il baricentro specifico della sua analisi.
Tuttavia, il pregio forse maggiore del lavoro risiede nell’angolo prospettico da cui l’autore guarda agli avvenimenti. Nella comune vulgata la storia radicale si identifica, in buona sostanza, con la vicenda personale di Marco Pannella; una storia che risulterebbe comprensibile, perciò, solo analizzando le scelte fatte dal suo leader eponimo. Questo libro fa cogliere, in maniera nitida e convincente, che la storia radicale non è riassumibile in una singola personalità ma rimanda a una più ampia dimensione politica ed umana. In altri termini, quello radicale era un partito in cui il carisma del leader non era mai indiscusso, ma doveva confrontarsi sempre con le opinioni di un più ampio gruppo dirigente.
Si tratta di un approccio euristico che non sminuisce la portata della leadership, rendendola non solo più articolata nel suo determinarsi ma anche più comprensibile. Rilette in questa chiave non personalistica, le scelte pannelliane non sono più le intuizioni estemporanee di un politico ricco di fantasia, ma si comprendono, invece, come decisioni maturate in un confronto costante, e a volte non privo di asprezza, con altri dirigenti e interlocutori politici.
Da questa impostazione generale discende un’attenzione prosopografica che attraversa tutto il libro e che costituisce la caratteristica forse più interessante del volume. La storia che ci viene raccontata e descritta, infatti, è anzitutto una storia di gruppi dirigenti che si formano, si integrano, si succedono, in un mutare di stagioni e di situazioni politiche. In questo modo viene messo l’accento su di un aspetto spesso trascurato dai commentatori. Il Partito radicale è sempre stato un luogo di formazione di classe politica. Certo, in più di un caso la militanza radicale è servita come un punto di partenza per approdi politici diversi, ma anche questa dispersione, in varie direzioni, di figure che in quel partito avevano fatto le prime esperienze conferma la bontà di quel percorso di apprendistato alla politica.
L’approccio prosopografico aiuta a comprendere anche la periodizzazione adottata. Il Partito radicale che, per semplificare, possiamo chiamare “pannelliano” nasce nel 1962, quando la cosiddetta sinistra radicale eredita la titolarità del nome del partito dopo la diaspora del “Mondo” di Pannunzio dovuta al caso Piccardi. Spadaccia, però, fa partire la sua ricostruzione dal dicembre 1955 cioè dalla scissione del Partito liberale da cui ebbe origine il Partito radicale. Si tratta di una scelta opportuna dal punto di vista interpretativo perché aiuta a capire le continuità e gli svolgimenti che attraversano la storia radicale.
L’autore individua tre componenti nel nuovo partito. La prima, e più numerosa, era fatta da esponenti del PLI in dissenso con la linea politica del nuovo segretario (Giovanni Malagodi). La seconda, importante soprattutto sotto il profilo intellettuale, era costituita da alcune personalità del vario universo della sinistra democratica (liberalsocialismo, azionismo). La terza, cui apparteneva anche Spadaccia, era composta da giovani che provenivano dall’associazionismo studentesco e dalla lotta politica universitaria.
Per quanto il partito fosse soprattutto un gruppo di pressione esso era comunque un centro di discussione politica e di elaborazione programmatica, cui i giovani della terza componente partecipavano a pieno titolo. Soprattutto, poi, l’esperienza parallela della politica negli organismi rappresentativi universitari ha costituito un elemento di crescita e di maturazione decisivo per un nucleo di militanti. In quella fase si creano legami e si stringono solidarietà che dureranno per decenni costituendo l’ossatura dei futuri dirigenti del partito.
Se la crisi del 1962 non cancella del tutto il Partito radicale dalla vita pubblica italiana ciò si deve al fatto che il gruppo che ne eredita la sigla non è privo di risorse intellettuali e di capacità politica. Tant’è vero che, dopo una traversata nel deserto di qualche anno, riesce a enucleare una linea politica (quella dei diritti civili) attorno a cui riprendere l’iniziativa e la mobilitazione.
Il racconto degli avvenimenti si svolge in maniera ordinata, tuttavia non ci troviamo di fronte a una semplice cronaca, perché l’autore scandisce la narrazione degli avvenimenti con una definita periodizzazione. In altri termini, la ricostruzione dei fatti va di pari passo con una ricerca delle ragioni di fondo delle singole scelte operate.
Spadaccia (a lato, nella foto) rileva giustamente che il Partito radicale, dopo la sua rifondazione, si riconosce in una piattaforma di rinnovamento della sinistra, al fine di creare le condizioni per un’alternativa di governo alla Democrazia cristiana. A partire dalla fine degli annia Settanta del secolo scorso, però, si accentuano i toni di una più generale opposizione alle politiche consociative e alla degenerazione partitocratica del sistema politico. Motivi che, con il passar del tempo, diventano sempre più caratterizzanti della posizione del partito. Tale mutamento di accento non è casuale, ma mostra la percezione di un progressivo degrado del sistema politico. Un discorso analogo può valere per una scelta che caratterizza una successiva stagione, quella del partito transnazionale e transpartitico. Si tratta di una decisione che non era una fuga in avanti ma costituiva un tentativo di fare fronte da un lato alla globalizzazione e dall’altro di dare un contributo alla rifondazione su basi non più consociative del sistema politico italiano; un tentativo forse troppo ambizioso ma sicuramente non privo di solide ragioni.
Un ultimo aspetto della ricostruzione di Spadaccia va sottolineato. Se l’azione radicale è stata spesso un’azione di rottura, se le analisi che la motivavano hanno svolto una critica impietosa dei limiti e delle insufficienze della democrazia italiana, l’attività del partito non si è mai caratterizzata per una chiusura settaria, ma ha sempre teso a creare, ove possibile, convergenze su particolari obiettivi con altre forze politiche, anche molto distanti per impostazione ideale e per collocazione politica. Ed è proprio questa capacità d’interlocuzione con gli avversari che costituisce forse il lascito più significativo di quella esperienza politica. Espressione, e chiudiamo questa nota con le parole dell’autore, di “quel rigoroso ancoraggio ai principi liberaldemocratici che ha caratterizzato il nostro libertarismo in tutta la storia radicale” (p. 687).
Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche – Università di Napoli “Federico II”
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