di Alessandro Campi
Da quando il Partito democratico ha deciso di fare un governo con il M5S, sono nati in Italia due nuovi partiti (entrambi alla sua destra: quello di Renzi e quello di Calenda) e un movimento di protesta che potrebbe diventare anche un partito (alla sua sinistra: le cosiddette “sardine”).
Per il Pd quest’effervescenza ai suoi confini di sigle e proposte politiche, magari minoritarie e in prospettiva effimere ma al momento ben intenzionate ad affermare la propria autonomia e originalità, è un problema serio: l’aumento della concorrenza politico-elettorale nell’area in senso lato di sinistra implica necessariamente la riduzione dei suoi consensi diretti e dunque il suo progressivo indebolimento (come puntualmente certificato dai sondaggi, che ormai lo danno sotto il 20%).
Chissà, se si fosse corso il rischio delle urne dopo la crisi agostana innescata da Salvini, invece di imbarcarsi in un’alleanza improbabile con i nemici mortali del giorno prima, si sarebbe forse evitato questo moto disgregatore (a partire dalla scissione renziana). Una campagna elettorale condotta all’attacco avrebbe consentito al Pd di catalizzare intorno a sé tutte le forze ostili al populismo giallo-verde appena imploso dopo una deludente prova al governo del Paese: ora quelle stesse forze – complici anche i troppi personalismi – rischiano di andare per conto proprio, di sovrapporsi o di elidersi a vicenda. Una sinistra divisa e rissosa difficilmente potrà mai vincere contro una destra unita pur nelle differenze.
Ma tale effervescenza è un problema, a ben vedere, anche per la politica italiana: sembra infatti che quest’aumento di partiti e simboli, che in teoria dovrebbe arricchire l’offerta a beneficio dei cittadini, produca nella realtà l’effetto paradossale di accrescerne lo scontento nei confronti di una politica dalla quale, per quanti sforzi faccia quest’ultima per rinnovarsi, continuano a non sentirsi rappresentati. Ad una persona affamata dopo un lungo digiuno è inutile mettere sotto gli occhi un menu con decine di portate fatte di assaggini sfiziosi: meglio pochi piatti ben selezionati e corposi tra i quali scegliere. Lo stesso vale in politica: un sistema democratico dove nascono sempre nuovi partiti e che vede continuamente cambiare i suoi attori non è vitale e dinamico come si pensa, semmai è caotico e instabile. E produce nei cittadini, affamati come sempre soprattutto di buongoverno, solo una grande confusione su cosa (e chi) scegliere al momento del voto. Non è aumentando il numero dei partiti che si accresce la loro capacità a rappresentare gli interessi, articolati e naturalmente confliggenti, presenti nella società.
Il movimento delle sardine è esattamente l’espressione di questo disagio, anche se la loro tanto enfatizzata trasversalità ideologica resta tutta da dimostrare: il loro malessere, al di là del giovanilismo di facciata che ha fatto immaginare l’inizio di una romantica e pacifica rivolta generazionale, riflette infatti quello di una parte politica che, indebolita ormai da anni dai personalismi e dalla mancanza di un progetto politico minimamente coerente, riesce a trovare un po’ di unità e coesione solo in negativo, nell’avversione esistenziale al nemico politico di turno. L’opposizione al salvinismo, derubricato polemicamente a politica dell’odio, è stata e resta il collante emotivo del sardinismo, che del primo vorrebbe essere l’alternativa civile, tollerante, amorevole e allegra. Va bene per chi considera la politica una semplice questione di stile, ma la mancanza di idee imputata ai populisti difficilmente può essere compensata solo dalla buona educazione.
Le simpatie, in questi giorni amplificate sui media in modo per molti versi strumentale, di qualche singolo esponente della destra moderata nei loro confronti dicono davvero poco dal punto di vista politico. Esprimono al massimo (volendo prendere per politicamente significative le esternazioni della giovane compagna del Cavaliere) il disagio di un certo mondo berlusconiano nei confronti di un Salvini sin troppo debordante. Ma pensare di contrastare quest’ultimo andando in piazza insieme ai suoi giovani contestatori di sinistra non sembra una grande idea. Come non lo è continuare a vagheggiare, per far uscire Forza Italia dalla crisi organizzativa e di consensi nella quale è precipitata, la nascita a tavolino dell’ennesimo partitino: in questo caso di centro e capace di tenere insieme i critici moderati del populismo sovranista e i riformisti della sinistra liberale staccatisi di recente dal Pd. Piuttosto che disarticolare ulteriormente un sistema politico già di per sé frammentato e instabile forse converrebbe lavorare – a destra come a sinistra – per dare un diverso impulso progettuale a quelle forze politiche che in questo momento presentano una maggiore ed effettiva presa sulla società e dunque una forza elettorale relativamente stabile e consistente.
Ciò significa che il problema della politica italiana, dopo un trentennio di continue fibrillazioni e di repentini cambi di scenario, non è inventarsi nuovi partiti, che come insegnano molte esperienze recenti sarebbero necessariamente personalistici, effimeri e frutto al massimo di manovre parlamentari di stampo trasformistico (si è arrivati anche a parlare di un Di Maio che messo alle corde nel M5S potrebbe inventarsi anch’egli un suo movimento meridionalista di protesta). Bensì la stabilizzazione organizzativa e ideologica di quelli esistenti, a partire dai più grandi.
Immaginiamo dunque la Lega sovranista che prova ad evolvere verso il modello di un partito conservatore di massa in prospettiva compatibile col popolarismo (dovrebbe essere questo l’obiettivo della Lega nazionale che Salvini intende far nascere il prossimo gennaio); il Pd che rinuncia alla sua natura ibrida e anfibia di forza genericamente progressista per tornare ad essere un partito di sinistra socialista-riformista; il M5S che si propone come un partito-movimento interessato, più che a scardinare il sistema o a cavalcare la rabbia popolare, a sperimentare nuovi modelli organizzativi e nuove forme di partecipazione alla vita democratica (così come indubbiamente consentito dalle nuove tecnologie digitali). Insomma, come la stabilità del sistema internazionale è garantita dal ruolo ordinatore che al suo interno svolgono le grandi potenze, laddove il proliferare delle sovranità e delle autonomie nazionali rappresenta invece un fattore di incertezza e di conflittualità permanente, così nell’arena domestica senza l’esistenza di medi-grandi partiti, portatori di una specifica e coerente visione della società e capaci di operare come polo d’attrazione per le forze minori, risulta difficile tenere in equilibrio ed efficiente un sistema politico-istituzionale.
Il ragionamento ci riporta alle sardine, che il prossimo fine settimana esordiranno sulla piazza romana. Con la loro mobilitazione dal basso possono fare il bene del Pd, a condizione però di proporsi nei confronti di quest’ultimo come un pungolo critico e come un potenziale bacino di idee ed energie. Ovvero possono diventarne un’antagonista da sinistra, nel caso dovessero scegliere di trasformarsi in un soggetto autonomo o cedere alla tentazione del movimentismo anti-partitico: diverrebbero in questo caso una variante, gentile e fotogenica, del grillismo originario e dunque un ennesimo (e francamente inutile) fattore di instabilità.
I sondaggi dicono che la loro affermazione sulla scena pubblica è andata di pari passo con il progressivo calo nei consensi fatto registrare da Salvini: salvo il piccolo particolare che i voti persi da quest’ultimo li ha incamerati Giorgia Meloni. Non hanno dunque minimamente indebolito la destra. Il paradosso è che rischiano di indebolire anche la sinistra.
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