di Alessandro Campi

Peggio del mancato cambiamento, soprattutto in politica, c’è solo il falso cambiamento, ovvero il cambiamento di facciata, quello che nella tradizione retorico-letteraria italiana si definisce gattopardismo: tutto o molto si modifica affinché tutto o l’essenziale resti come prima. Ma siccome al peggio non c’è fine, la forma di cambiamento più deleteria – anch’essa un’antica specialità italica – è quella che si realizza non per scelta autonoma, consapevole e motivata di chi tiene nelle sue mani il potere, ma sotto la pressione di eventi traumatici o della paura, per soddisfare la folla inferocita o un’opinione pubblica esasperata, in modo rocambolesco e improvvisato.

Prendiamo, ad esempio, le polemiche di questi giorni sul numero dei consiglieri regionali presenti nel nostro Paese. Si scoperto che è esorbitante ed economicamente insostenibile solo dopo che è scoppiato lo scandalo nel Lazio. È perciò iniziata la gara, ad opera delle spesse Regioni, a ridurlo in modo consistente già a partire dalle prossime legislature. Bene, si dirà, anzi benissimo, visti i tempi grami che stiamo vivendo. E giacché s’è preso quest’abbrivio moralizzatore e sparagnino, in tutte le Regioni converrà mettere mano anche agli stipendi, ai rimborsi, ai vitalizi, alle dotazioni dei gruppi, ai mille inghippi insomma coi quali i cittadini finanziano (spesso a loro insaputa) la politica periferica. Da un alto occorre tagliare sin dove possibile, dall’altro bisogna rendere trasparente l’uso del denaro pubblico (che allo Stato e alle sue articolazioni arriva sempre, ricordiamolo, da una fonte sola: le tasse pagate dai contribuenti).

Il problema è che sino all’altro ieri di far dimagrire le Regioni e di riportarle sulla retta via nessuno parlava. Anzi, a fronte di uno Stato centrale sprecone ed inefficiente esse venivano indicate come l’unità di governo sulla quale costruire un assetto istituzionale modernamente federale e autenticamente vicino ai bisogni e agli interessi degli elettori. Si discuteva piuttosto di abolire, definendole enti inutili, le Province (lo si è fatto solo in parte, alla maniera compromissoria che ci è propria) e di ridurre il numero (questo sì esorbitante per davvero) dei parlamentari nazionali. Quest’ultima, in particolare, sembrava una misura divenuta indispensabile per riconciliare gli italiani con il Palazzo e per restituire, come suole dirsi, credibilità alla politica. C’era persino stato un voto al Senato, lo scorso giugno, con il quale i partiti – quasi all’unanimità – avevano dato il vita libera alla riduzione di deputati e senatori e si erano impegnati a varare in tempi brevi una legge elettorale che mettesse fine allo scandalo dei nominati dalle segreterie.

Ma è bastato che i riflettori si accendessero su Fiorito e i suoi cloni sparsi per l’Italia, non sempre arraffatori seriali e compulsivi, più spesso modesti percettori di indebiti rimborsi chilometri, perché di questi tagli si smettesse di parlare (non parliamo, per pietà, della legge elettorale, che proprio non si riesce a varare). Per le elezioni politiche generali si vota tra qualche mese. E ciò significa – a meno di un miracolo – che verrà consentito ad un esercito di 945 rappresentanti del popolo di tornare allegramente a Roma, pur sapendo che molti di loro non avranno altro da fare, per cinque anni, che premere un bottone ogni tanto in cambio di un lauto emolumento e di svariati benefit.

Insomma, l’agenda delle riforme politiche in Italia segue, invece che prudenza e raziocinio, l’onda degli scandali e degli umori popolari. Ed essendo questi ultimi frequenti (i primi) ed assai variabili (i secondi), ecco che anche su materie assai delicate ci si accontenta di provvedimenti dettati dall’emergenza e dalla fretta, di misure che di drastico e radicale hanno solo l’apparenza o peggio di scelte che vorrebbero essere risolutive e dirimenti e invece risultano solo peggiorative, contribuendo per di più ad occultare i problemi reali.

Perché è vero – per tornare al nostro esempio di partenza – che i consiglieri regionali sono troppi (e, se per questo, anche gli assessori). E dunque ci sta una bella sforbiciata, che se possibile andrebbe estesa anche ai loro colleghi parlamentari. Ma è anche vero che una riduzione di due-trecento consiglieri, magari farà risparmiare l’erario (meno tuttavia di quanto credano gli italiani), ma non è detto ci restituisca ciò di cui abbiamo per davvero bisogno: una classe politica onesta, competente, affidabile e votata al bene comune. Soprattutto una tale misura, sicuramente popolare, rischia di non andare al cuore del problema che abbiamo dinnanzi.

Si può, infatti, imporre alle Regioni, per tacitare l’indignazione degli elettori, un programma di tagli e restrizioni, un severo meccanismo di controlli e verifiche circa l’uso che in futuro esse dovranno fare delle risorse pubbliche, ma ciò non può farci dimenticare che il marcio venuto a galla in queste settimane è il frutto non solo della disonestà dei singoli o della famelicità dei partiti, ma di una riforma costituzionale (quella del Titolo V della Carta varata frettolosamente dal Governo Prodi nel 2001) che ha attribuito agli enti territoriali (a partire appunto dalle Regioni) competenze e funzioni che forse sarebbe stato meglio lasciare nelle mani dello Stato, un’eccessiva autonomia di spesa e prelievo e una forma di autogoverno che per certune regioni sfiora l’indipendenza politica.

Il risultato di quel controverso cambiamento – frutto dell’ubriacatura federalista che all’epoca aveva contagiato persino la sinistra – lo abbiamo oggi sotto gli occhi. I difetti e i vizi dello Stato centrale si sono moltiplicati per quante sono le Regioni italiane, con in più l’aggiunta di continui contenziosi legali e politici tra il primo e le seconde che certo non favoriscono il varo di politiche pubbliche strategicamente finalizzate alla crescita dell’Italia. La spesa pubblica, sommando quella centrale e quella periferica sempre più crescente, ha raggiunto livelli di guardia. Il finanziamento alla politica, a sua volta, è praticamente raddoppiato, dal momento che ai rimborsi elettorali ai partiti, elargiti a livello nazionale, si sono affiancate strada facendo le cospicue dotazioni assegnate, nelle singole Regioni, a gruppi consiliari, singoli consiglieri e assessori. La crescita di autonomia politico-amministrativa delle Regioni ha infine favorito il consolidarsi di “consorterie” territoriali, quando non di clan e gruppi di potere locali, i cui metodi di governo e di condizionamento, proprio perché ormai sganciati da qualunque controllo da parte dei vertici dei partiti nazionali, non hanno nulla da invidiare a quelli tanto vituperati della vecchia “partitocrazia” romana.

E dunque tagliamo scranni e compensi, se questo basta a placare la nostra attuale rabbia. Ma con la consapevolezza che per risolvere il bubbone regionalista, scoppiato per caso, ci vorrebbe altro che una semplice revisione delle spese e maggiori controlli contabili, bensì una controrivoluzione costituzionale. E sapendo altresì che, per come siamo fatti noi italiani. basterà un nuovo scandalo per indirizzare altrove la nostra indignazione. Chissà forse tra qualche settimana torneremo a chiedere che si mandino a casa un po’ di parlamentari fannulloni o magari, perché no?, di accorpare i piccoli Comuni o di sopprimere le Regioni a Statuto speciale.