di Florindo Rubbettino
C’è un dato che più di tutti induce a riflettere nel rapporto Svimez 2018: negli ultimi 16 anni hanno lasciato il Sud 1.833.000 residenti e di questi la metà sono giovani.
È in questa vera e propria emergenza demografica la spiegazione del nuovo scivolamento del Sud nella spirale del ritardo, dell’impoverimento materiale e culturale, nel degrado.
Non è una novità che l’emorragia di capitale umano di qualità che lascia questo territorio finisca per rendere il Mezzogiorno più povero e smunto, incapace di reagire ai tanti problemi che lo attanagliano e alle numerose sfide che lo attendono.
Così come non sono nuove le responsabilità di una intera classe politica che non è riuscita a mettere in campo misure in grado di arginare la fuga.
Ciò che però non è sufficientemente messo in luce sono le responsabilità di quei meridionali che se ne vanno.
La narrazione dominante li rappresenta come delle vittime, dei nuovi emigranti senza altra scelta che quella di lasciare con immenso dolore la propria terra e i propri affetti.
Ma se proviamo a guardare per un istante da una diversa angolazione questo fenomeno ci rendiamo conto che forse una diversa lettura è possibile.
Ci si sposta verso altri territori che offrono maggiori opportunità, che riconoscono il valore del merito e per questo sono più appetibili. Ma quei luoghi sono migliori non per delle loro caratteristiche intrinseche ma solo perché i loro abitanti (autoctoni e nuovi arrivati) li hanno resi migliori e perché i più bravi non li hanno abbandonati. O almeno non tutti.
Non solo la politica (che non va assolta) ma anche i cittadini hanno le loro responsabilità. Per cambiare i territori e renderli migliori serve anche il loro coraggio, serve affrontare la dura lotta tra i fautori dello status quo e della conservazione e chi vuole il cambiamento. È una battaglia feroce che richiede coraggio e determinazione. Per dirla in una parola, occorre una cultura civica, che sia in grado di opporre al malcostume sedimentato un ambiente in cui la virtù proattiva di singoli e comunità possa fare la differenza.
In che modo? Anzitutto rifuggendo da qualsiasi tentazione assistenzialista. L’assistenzialismo, lo stigma secolare del Meridione, è la vera ipoteca sul nostro futuro. Questo fenomeno esclude chiunque non voglia trovarsi legato al potente di turno (notabile, capo mafioso, o Stato che sia – senza poi troppa differenza tra questi, invero) e al medesimo tempo include solo a livello di consorterie avide di benefici e privilegi. Normale che da esso si voglia fuggire, cercando un altrove. Proviamo ad immaginare cosa succederebbe se anziché fuggire si ingaggiasse questa sfida inedita ed epocale. Cosa succederebbe se chi potesse scegliere restasse nei luoghi e nelle postazioni dove si può innescare il cambiamento? Se si provasse ad invertire questo trend negli atenei del Sud, nei Centri di ricerca, nella sanità, se si fondassero think-tank, cooperative sociali, imprese, start-up, dedicandosi all’agricoltura 4.0, alla valorizzazione del turismo e della cultura, alla manifattura senza invocare ad ogni pié sospinto anacronistici “aiuti dall’alto”?
Questa nuova classe di “colonizzatori” delle proprie stesse terre avrebbe contribuito a creare un contropotere ai mediocri, ai parassiti, ai furbi che si annidano ovunque, ma soprattutto avrebbe costruito delle traiettorie di futuro per sé e per gli altri. E darebbe manforte ai pochi che oggi provano a farlo e soccombono regolarmente.
Restando si contribuirebbe a costruire argini, contro le mafie, le burocrazie ottuse e arroganti, la politica inconcludente, contro il disinteresse e la superficialità diffuse.
Va da sé che ognuno è libero di scegliere altre strade se non troverà la forza di combattere e se l’incertezza prevarrà sul coraggio. Dovrebbero però risparmiare le prediche a distanza e “l’ogni volta che ritorno mi piange il cuore”. Perché il cuore piange a chi combatte sul campo in solitudine e sa che se si serrassero le fila, la battaglia sarebbe vinta.
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