di Alessandro Campi
A contendersi la guida del Pd saranno dunque Nicola Zingaretti, Marco Minniti (nella foto) e Maurizio Martina (che proprio oggi dovrebbe sciogliere la riserva su di sé). Ci sono altri nomi in corsa, ma sono candidature di bandiera. Le primarie, a causa di uno statuto farraginoso, dovrebbero svolgersi entro il prossimo marzo. Otto mesi per sciogliere l’Assemblea nazionale e far partire la macchina congressuale sono un’enormità, a conferma di quanto sia stata scioccante la sconfitta alle urne della sinistra.
Come andrà a finire è difficile dirlo: c’è chi prevede un equilibrio tra i tre candidati, nessuno dei quali in grado di raggiungere il 50% dei consensi. In questo caso, il terzo arrivato sarebbe l’ago della bilancia nell’Assemblea. Ma è probabile che si crei un effetto polarizzante in grado di ridurre la competizione reale a due soli nomi. Ma qual è il senso politico di queste candidature, quali effetti la vittoria dell’uno o dell’altro potrebbe determinare e quale partito può eventualmente nascere dal confronto appena iniziato?
La prima cosa da notare è che sono in corsa tre personalità certo diverse ma accomunate dalla provenienza, diversamente modulata per ragioni d’età, dal Pci e dai suoi diretti eredi. Il Pd nato nel 2007 come casa comune dei post-democristiani e dei post-comunisti sembra finito per sempre, al di là del mantenimento o meno della sigla. Già Renzi ne aveva stravolto i rapporti interni. Ma la sua doppia competizione con Bersani per la segreteria, vista la provenienza dell’ex Sindaco di Firenze dai circoli del pauperismo lapiriano, dava ancora il senso di una dialettica per l’egemonia tra due tradizioni culturali che avevano scelto di convivere sotto lo stesso tetto. Dal prossimo confronto i cattolico-democratici sono semplicemente spariti, ridotti al rango di portatori d’acqua a beneficio di esponenti a vario titolo della storia “ditta” post-comunista.
Ma la sparizione che più colpisce è quella fisica di Renzi, ostentatamente assente dal dibattito sul futuro segretario, e quella politica del renzismo. Quest’ultima area dovrebbe essere rappresentata da Minniti, che però ha negato di esserne il rappresentante, così come Renzi ha negato che l’ex ministro degli interni, un realista dalemiano cresciuto tra caserme e apparati di sicurezza, sia il suo candidato. Da un lato potrebbe essere un gioco tattico concordato, per non lasciare a Zingaretti e Martina la rappresentanza del fronte anti-renziano e per consentire a Minnitti di presentarsi come un candidato potenzialmente unitario sostenuto non da un vecchio vertice ma da una base composta da sindaci e amministratori. Dall’altro si tratta di un nodo politico che se non sciolto alla luce del sole rischia di rendere concreta la possibilità di una nuova scissione. Ci si riferisce ovviamente a cosa sia stato il renzismo come stagione politica: un trapianto innaturale a sinistra di tematiche e parole d’ordine mutuate dal berlusconismo, come tale da dimenticare alla stregua di un brutto mal di testa, o un tentativo d’innovazione del campo progressista che, per quanto mal condotto anche per un eccesso di personalismo, ha avuto una sua plausibilità strategica? Nel primo caso, normale che nessuno voglia rivendicarne l’eredità. Nel secondo, normale che Renzi e i suoi, se ancora credono in ciò che hanno sempre sostenuto, provino a farsi un partito. Che peraltro non necessariamente sarebbe concorrenziale col Pd: semmai lo affiancherebbe da posizioni liberal-riformiste e moderatamente progressiste.
L’idea semplice (forse troppo) che sembra caratterizzare i tre candidati è virare il Pd a sinistra dopo le inutili virate al centro. E tornare tra il popolo dopo essersi troppo compiaciuti del proprio essere aristocrazia pensante in un Paese che sempre più sta scivolando verso l’ignoranza, la grettezza e una sorta di fascismo antropologico (che se innato peraltro nemmeno sia capisce come si possa estirpare). Secondo Minnitti, bisogna farsi carico della rabbia sociale e della paura, provando a costruire quello che definisce un ‘riformismo popolare’: un mix virtuoso (e al momento ancora fumoso) di sicurezza e umanità, interesse nazionale ed europeismo, crescita economica e giustizia sociale. L’obiettivo primario, condiviso anche da Zingaretti, è riprendersi i voti fuggiti verso il movimento grillino, tornando a guardare il mondo dalla parte dei deboli.
Il problema è con quali ricette o proposte convincere questi ultimi, visto che la maggioranza giallo-verde sembra aver ampiamente appagato, almeno a parole e sul piano dell’immaginario, i desiderata dell’elettorato cosiddetto popolare: dalle politiche securitarie in materia di immigrazione alle attese di benessere attraverso il reddito di cittadinanza. Al momento il Pd può scommettere solo sulla mancata realizzazione delle promesse fatte dal governo in carica e sulla delusione cocente che ne seguirebbe. Ma un partito non può giocare solo di rimessa, ovvero fare affidamento sul fallimento degli avversari. Deve costruire un’immagine positiva di sé, esattamente come aveva saputo fare il primo Renzi. E qui veniamo ai nodi veri del Pd, chiunque vinca, che solo almeno due.
Il primo è l’immagine che l’accompagna di un partito strutturalmente litigioso, diviso in gruppi e correnti, il cui principale impegno politico negli anni è consistito nel far fuori i propri leader appena dopo averli consacrati: una spirale autodistruttiva, da Veltroni a Renzi. Normale chiedersi quanto potrebbero durare, e che potere reale avrebbero, Minniti o Zingaretti o Martina una volta eletti, peraltro a ridosso del passaggio cruciale delle elezioni europee. Probabilmente la sinistra non ha ancora culturalmente introietto il passaggio epocale dalla democrazia dei partiti alla democrazia del leader, che si ostina a denunciare come deriva autoritaria.
Il secondo nodo riguarda i ceti sociali da recuperare. Va bene una sinistra che torna a rappresentare quelli più disagiati, secondo la sua storica vocazione. Ma è altrettanto seria l’incomunicabilità che la sinistra cosiddetta riformista mantiene da anni col mondo produttivo, a partire dal quello nordista che oggi, dopo il collasso del berlusconismo, ha solo la Lega come interlocutrice. Renzi il problema del dialogo con le componenti più aperte all’innovazione della società italiana se l’era posto, salvo l’errore di anteporre i rappresentanti della finanza globalizzata e un simbolo del managerialismo multinazionale come Marchionne ai campioni spesso un po’ rudi di quella media industria di provincia che ancora rappresenta il nerbo dell’economia italiana. Un segnale d’attenzione verso questa parte strategica d’Italia forse avrebbe richiesto candidature più spiazzanti e meno legate alle logiche politiciste e d’apparato, autoreferenziali anche sul piano del linguaggio, che sono l’altro limite che il Pd sconta da anni e che spiegano la sua difficoltà a intercettare gli umori profondi della società italiana, a lungo biasimati come pericolosi, ora finalmente riconosciuti come meritevoli d’attenzione.
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