di Fabio Polese

Il 13 marzo di undici anni fa, il fotoreporter Raffaele Ciriello, veniva ucciso da una raffica di proiettili israeliani a Ramallah, nella Palestina occupata, mentre stava svolgendo il proprio lavoro. Raffaele Ciriello aveva iniziato la carriera di fotografo negli anni Novanta, seguendo corse motociclistiche e rally come la Parigi-Dakar. In seguito si era appassionato al fotogiornalismo in zone di guerra e aveva realizzato servizi in diverse parti del mondo: dal Libano all’Afghanistan, dal Ruanda al Kosovo, dall’Eritrea alla Palestina. Era proprio per questo che Ciriello si trovava a Ramallah: stava documentando, questa volta per il Corriere della Sera, l’avanzata dell’esercito israeliano.

Il clima di quei giorni è descritto da Amedeo Ricucci – giornalista Rai presente in quel drammatico 13 marzo del 2002 – nel suo libro «La guerra in diretta» (Pendragon, 2004). «Il giorno prima Ramallah era stata occupata dall’esercito israeliano, che stava mettendo a ferro e fuoco i campi profughi della città e aveva già chiarito molto esplicitamente, con una pioggia di proiettili sparati una notte prima nelle nostre camere d’albergo, di non voler giornalisti tra i piedi».

Nella notte tra l’11 e il 12 di marzo gli israeliani, avevano attaccato il campo di Al Amari che si trova a poche centinaia di metri dall’Hotel City Inn, l’albergo dove alloggiavano i giornalisti, e «alla cieca, avevano iniziato a sparare». Per fortuna non era rimasto ucciso nessuno, ma, ricorda Ricucci, «avevano chiarito con estrema efficacia che non volevano la stampa fra i piedi».

Come al solito, quando un esercito spara sull’albergo dei giornalisti, è sempre per «errore»; la mattina del 12 marzo il portavoce dell’esercito israeliano chiuse la vicenda con un semplice: «Siamo molto spiacenti, ma c’erano dei cecchini appostati sul tetto dell’albergo dai quali avevamo il diritto di difenderci». In realtà, spiega Ricucci nel suo libro, quella notte non c’era nessun cecchino sul tetto dell’Hotel City Inn di Ramallah.

E, sempre per questo cosiddetto «errore», sarebbe stato ucciso Raffaele Ciriello il giorno seguente. La versione formale data per la sua morte, infatti, è che il reporter italiano sia stato scambiato per un miliziano palestinese armato di un lanciagranate. «Scambiare la piccola telecamera palmare di Lello con un Rpg è semplicemente ridicolo» scrive Ricucci in un articolo per ricordare il collega, anche perchè «la prima si impugna bassa e nelle mani, il secondo invece alto e a spalla». Parlare, dunque, di uno «sfortunato e tragico incidente» è stato solo «un modo per minimizzare i fatti ed evitare di assumersi le proprie responsabilità». Ufficialmente risulta che Raffaele Ciriello è stato ucciso da «ignoti ma io invece l’ho visto bene il carro armato da cui gli hanno sparato. E di sicuro non lo dimenticherò, mai».

Le immagini di quel maledetto 13 marzo del 2002 sono impresse nel sito di Raffaele Ciriello, «Postcards from hell» che è rimasto on-line come lo aveva lasciato prima di partire per la Palestina – solo con l’aggiunta del suo ultimo video -, dove era andato per documentare l’Intifada e ha trovato la morte, filmandola.

L’inchiesta aperta nel 2002 dalla Procura di Milano è stata battuta dal silenzio del governo di Tel Aviv che si è rifiutato di identificare i soldati che fecero partire la raffica di proiettili calibro 7,62 Nato dal tank di Israele. Nonostante anche Shimon Peres, ministro degli esteri israeliano del tempo, avesse garantito che l’inchiesta sarebbe proseguita. Nulla di tutto ciò è accaduto, l’indagine è stata archiviata e Raffaele Ciriello è morto a 42 anni, colpito da un soldato «ignoto» e per «errore».

«Dieci anni dopo quel 13 marzo del 2002 – scrive sempre Ricucci in un articolo di un anno fa – vedo che i giornalisti continuano a morire, che i palestinesi continuano a soffrire per mano israeliana e che dei free-lance (e dei precari) non frega ancora oggi niente a nessuno».

Già, perché Ciriello era un free-lance e non aveva le spalle coperte nè da una testata giornalistica né da una redazione. L’inviato Bernardo Valli in un articolo di Repubblica, datato 14 marzo 2002, sottolinea che il lavoro del fotoreporter indipendente è più rischioso. «Per catturare le immagini deve andare là dove si trovano». Il fotoreporter free-lance, come era Raffaele Ciriello, «non condivide i rischi con nessuno». «Non ha legami protettivi. Fa pensare a un soldato di ventura. Ha un rapporto passeggero con chi gli compera le fotografie; e che di solito gliele compra a condizione che “dicano qualcosa”. Al massimo ha un contratto effimero, il tempo necessario per un reportage. Non è facile far parlare una fotografia, far sì che dica qualcosa. Bisogna che il gesto, l’espressione, la scena inquadrata nell’obiettivo riassuma una situazione, e susciti le giuste reazioni: ripulsa, approvazione, pietà, disgusto, ammirazione, perplessità. Uno dei sentimenti che ci accompagnano nella vita. Invidio i fotoreporter che riassumono in un’immagine una guerra, una rivoluzione, una crisi economica, una calamità naturale, un istante di felicità collettiva. In questi casi la fotografia non equivale a un articolo, è un romanzo. Ma per captare quella immagine è necessario andare nel cuore dell’avvenimento».

Perché ricordare Raffaele Ciriello? Per prima cosa perché ogni persona morta mentre stava svolgendo il proprio lavoro merita di essere ricordata. Soprattutto se è stata uccisa proditoriamente. E poi, perché, in un mondo dove il modo di fare informazione sta mutando di giorno in giorno, bisogna ricordarci di chi, rischiando la propria vita, ci racconta i conflitti da inviato in prima linea. Alla ricerca della verità, sempre.

 

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