di Davide Ragnolini
“Lo storico deve diventare filosofo e il filosofo deve essere attento a ciò che non potremo vedere una seconda volta”. Con queste parole di monito, pronunciate nel lontano 1967, Raymond Aron chiosava un articolo sul significato della teoria internazionale, commentando retrospettivamente la crisi dei missili incorsa qualche anno prima, nel 1962. Era lo stesso anno in cui apparve il suo imponente studio sulla teoria internazionale, Paix et guerre entre les nations, un notevole banco di prova per testare proprio le competenze storiche e filosofiche assieme del sociologo francese.
Il lavoro sarebbe poi diventato un classico di un genere ancora negletto negli studi politologici, o comunque, al tempo, non programmaticamente ancora bene delineato: la teoria delle relazioni tra Stati. Un classico, peraltro, che entro il genere accademico della teoria internazionale, o dell’IR – come impone la tirannia linguistica – è difficilmente inquadrabile all’interno di una sua ‘scuola’. ‘Pace e guerra tra le nazioni’ era un sintagma che rievocava evidentemente il titolo di un’altra una fortunata opera del genere, che una sua ‘scuola’, invece, la aveva: il breviario (nemmeno troppo breve) di teoria realista di Hans J. Morgenthau, Politics among Nations (1948).
Perché mai (ri)leggere un libro di circa 900 pagine, scritto in piena Guerra Fredda, sulla vita degli Stati? Non ha forse ormai preso il sopravvento, per usare una dicotomia cara a Aron, la “società transnazionale” sul “sistema internazionale”, la relazione tra attori non-statali sugli attori statali? Non è forse obsoleto riferirsi a questi ultimi ancora come “potenze”? E che utilità potrebbe avere un ingombrante compendio teorico dei fenomeni e processi internazionali, scritto con quel gusto, ormai démodé, per la casuistica storica e la generalizzazione sociologica?
Se è vero che “le epoche di disordini pubblici incitano alla meditazione”, come ci ricordava Aron nelle pagine introduttive della sua opera, a fortiori è vero per le epoche di grande disordine internazionale. Forse le grandi crisi non appartengono ancora alle dinamiche del nostro sistema internazionale? Forse che non siamo, come suggeriscono più voci da più parti, addirittura in una Seconda Guerra Fredda? O che il problema degli arsenali strategici, la cifra più tipica della letteratura internazionalistica (e non solo) di quel periodo, non sia tornato in auge con le negoziazioni tra Washington e Pyongyang, o nei ‘libri bianchi’ del Pentagono e del Cremlino? Forse che la politica internazionale non è ancora ‘oligopolistica’, come la definì il sociologo francese negli anni Sessanta?
La riflessione internazionalistica di Aron è innanzitutto una meditazione sui limiti epistemologici e normativi di qualsivoglia sistema di teoria internazionale. Sapremo davvero costruire un modello di teoria internazionale? Nel dibattito sulle più grandi questioni della vita internazionale, quello di Aron è un lavoro che continua, debolmente ma costantemente, a brillare di luce propria. Stanley Hoffmann una volta definì l’opera del francese come il più grande sforzo che un uomo avesse da solo intrapreso per abbracciare l’intera disciplina delle relazioni internazionali.
Una simile impresa culturale non rappresenta il discusso (e discutibile) modello della ‘torre d’avorio’ del sapere politico, a cui ingiustamente è stata associata, tra gli altri, la figura di un Martin Wight e della ‘sua’ English School. Non si tratta di un esercizio di erudizione, di una prova muscolare di sintesi tra filosofia, polemologia e storia (come del resto non lo sarebbe stata l’impresa di Wight poi). La sua opera, piuttosto, serve da guida per la nostra navigazione a vista nella politica internazionale, come un vecchio faro nel mare magnum della globalizzazione e del suo vorticoso dibattito contemporaneo.
Le epoche trascorrono e, assieme a queste, anche le teorie sulle epoche dell’uomo: né lo stadio positivo di Comte, né la marxiana uscita dalla preistoria dell’umanità, né l’approdo alla fine della Storia di Fukuyama hanno scandito una nuova età. E tuttavia continua a esistere un’età che è così essenziale alla vita dell’uomo e delle sue comunità politiche da passare inosservata: la lunga età diplomatica, quella che Aron colloca tra il passato prediplomatico dell’uomo (in assenza di relazioni stabili tra comunità), e il futuro postdiplomatico, in cui uno Stato universale potrebbe sopprimere la distinzione tra politica interna ed estera.
E in questa età diplomatica continuano a sussistere tanto le affascinanti scissioni concettuali della politica tra ‘interno’ ed ‘esterno’, quanto le stesse ‘potenze’ statali. E queste continuano a sussistere come ‘potenze’ perché l’uomo non ha mai abbandonato l’ambiguità di fondo del mondo internazionale in quanto tale: un ambiente in cui, in ultima istanza, il principio di autoaffidamento è un fatto consustanziale alle relazioni tra i suoi attori.
Ma quello internazionale è un ambiente che, ci ricorda Aron, non è mai interamente riducibile soltanto allo spazio astratto della geopolitica, cioè a quello di un “campo schematico della politica internazionale”. Nemmeno durante la Prima (o la Seconda) Guerra Fredda.
Troppo poco sistematico per Waltz, troppo teorico per Morgenthau, il ponderoso contributo di Aron è però forse ancor più ‘realista’ del pensiero dei suoi detrattori: il pensatore francese era infatti pessimista circa la possibilità di costruire una teoria delle relazioni internazionali a misura di un homo diplomaticus, perché non esiste nessun equivalente dell’homo oeconomicus nella politica diplomatica e nella vita degli Stati. Questo suo insegnamento pervade l’intera sua riflessione internazionalistica, che ancora oggi, nel marzo di quest’anno, ad oltre 50 anni dalla sua opera, gli è valsa in suo ricordo un volume collettaneo di studi (O. Schmitt [ed.], Raymond Aron and International Relations, Routledge, London 2018).
Nel precario ordine del mondo, il compito dei teorici della politica internazionale è pensare con gli strumenti della filosofia i fenomeni di una politica estera che è sempre più determinante per la politica interna. Senza cedere alle distopie escatologiche, e senza inseguire le utopie antropologiche: nemmeno quella dell’utopia dell’homo diplomaticus, che la teoria internazionalistica non può promettere. Un ottimismo moderato deve guidare gli osservatori della politica internazionale di ieri e di oggi, perché, come suggeriva Aron nella sua prefazione del 1966, “se i filosofi hanno spesso definito l’uomo un essere ragionevole, di rado hanno applicato con la medesima sicurezza questo attributo alla storia degli uomini”.
*Ph.D Candidate – Consorzio Filosofia del Nord Ovest (FINO) – Università degli Studi di Torino
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