di Spartaco Pupo
“Il pessimismo salverà il mondo”, scrisse Roger Scruton in uno dei suoi libri più significativi, Del buon uso del pessimismo (2010), scritto contro tutte quelle forme “perverse” di ottimismo di cui è intrisa la moderna storia europea, che ha visto agire “ottimisti senza scrupoli” con il pretesto di un miglioramento dell’umanità e l’immaginazione di un futuro radioso per tutti, ma rivelatosi, alla prova dei fatti, una tragedia per molti.
di Spartaco Pupo

“Il pessimismo salverà il mondo”, scrisse Roger Scruton in uno dei suoi libri più significativi, Del buon uso del pessimismo (2010), scritto contro tutte quelle forme “perverse” di ottimismo di cui è intrisa la moderna storia europea, che ha visto agire “ottimisti senza scrupoli” con il pretesto di un miglioramento dell’umanità e l’immaginazione di un futuro radioso per tutti, ma rivelatosi, alla prova dei fatti, una tragedia per molti. Il pessimismo, dunque, come dettato non da una filosofia della rinuncia ma dalla consapevolezza dei limiti della natura dell’uomo che rendono impossibile ogni pianificazione idealistica della società, rimane il solo atteggiamento in grado di restituire equilibrio e saggezza alla condotta umana. Chissà se Scruton immaginò mai di dover essere un giorno ridotto a un uso forzato del pessimismo come visione tetra della condizione umana, sfinita da un male incurabile, quello che se l’è portato via dopo sei mesi di atrici sofferenze, all’età di 75 anni.

Era nato il 27 febbraio 1944 a Buslingthorpe, cittadina dell’alto Wycombe, e aveva studiato a Cambridge, Londra, Praga e Brno. Dal 1971 al 1995 insegnò filosofia prima al Birkbeck College di Londra, poi alla Boston University. Ricevette lauree onorifiche dall’Adelphi University di New York (1995) e dalla Masaryk University di Brno (1997). Fu nominato “Fellow” all’European Academy of Arts and Sciences (1995), alla Royal Society of Literature (2003) e alla British Academy (2008).

Filosofo, critico letterario, dottrinario politico, compositore e studioso di musica, narratore, poeta, Sir Roger Scruton è stato uno degli intellettuali europei più autorevoli degli ultimi quarant’anni (il New Yorker lo definì “il più influente filosofo al mondo”), ma anche uno dei più controversi e discussi in virtù del suo orientamento conservatore, perfettamente in linea con la tradizione di pensiero tipicamente britannica  che vede in Edmund Burke il suo principale ispiratore e che in diverse occasioni l’ha portato ad assumere posizioni polemiche, eccentriche, politicamente scorrette e controcorrente. L’ha fatto discutendo dei temi più disparati, dall’estetica all’animalismo, dalla religione all’economia, dall’etica sessuale all’identità nazionale, in una sessantina di libri, alcuni dei quali tradotti in italiano (come Guida filosofica per tipi intelligenti, 1997; Manifesto dei conservatori, 2007; La cultura conta, 2008; Gli animali hanno diritti?, 2008; La bellezza. Ragioni ed esperienza estetica, 2011; Il suicidio dell’Occidente, 2010; La tradizione e il sacro, 2015), un centinaio di articoli scientifici, due opere teatrali, un paio di novelle, un libro di poesie, decine di conferenze tenute come visiting professor alle università di Oxford e St Andrews. Fu anche direttore di riviste, come The Salisbury Review, fondatore di case editrici e curatore di rubriche per quotidiani e riviste, come il Wall Street Journal, The American Spectator e The New Statesman.

Scruton è stato senz’altro uno dei più coraggiosi intellettuali pubblici della scena pubblica occidentale. Durante la Guerra Fredda si spese molto per la causa dei dissidenti dell’Europa centrale e orientale, sostenendo la Jan Hus Educational Foundation, che organizzava seminari clandestini per intellettuali cecoslovacchi perseguitati dalla dittatura comunista. Caduto il Muro di Berlino, il popolo ceco lo onorò, nel 2000, della Medaglia al Merito dalla Repubblica Ceca. Nel 1982 fondò la Jagiellonian Trust, operante tra Polonia e Ungheria, e nello stesso periodo mise in piedi l’Anglo-Lebanese Cultural Association allo scopo di riconciliare i guerriglieri del Libano.

La critica radicale si accanì spesso contro di lui, bollandolo con epiteti come “bieco reazionario”, “tuttologo illiberale”, “letterato-predicatore”, “rude polemista” e “nazionalista”. Solo un’etichetta Scruton non ha mai disdegnato, quella di conservatore, che anzi rivendicava apertamente per sé e che gli procurò non pochi fastidi. The Financial Times, ad esempio, gli soppresse la rubrica di politica nazionale in seguito a una insinuazione di The Guardian circa un suo presunto complotto in favore del commercio di sigarette. Un giorno, a un convegno sulla tolleranza all’Università di York, un gruppo di contestatori gli impedì di parlare per via proprio del suo conservatorismo visto come una minaccia reale alla egemonia liberal. Ricordò con amarezza nella sua autobiografia che a un certo punto divenne motivo d’onore tra gli intellettuali inglesi prendere le distanze da lui per mezzo di feroci stroncature dei suoi libri e tentativi di bloccargli ogni possibilità di carriera accademica. Da qui il suo atteggiamento disincantato e critico nei confronti del mondo accademico e la sua pungente critica al politically correct tipico dell’intellettualismo devoto al ripudio dei valori tradizionali e delle “virtù nascoste” della civiltà occidentale: l’insediamento rurale, la common law, la “monarchia all’ordine sacro” e il patrimonio culturale come sedimento di un’esperienza presente ed eterna, locale e universale.

Al conservatorismo politico di Scruton la Rivista di Politica, nel fascicolo 4/2014, dedicò ampio spazio con la pubblicazione di un lungo saggio a firma del sottoscritto e di due suoi inediti: Come essere antisocialisti, non liberali e conservatori (1993) e Breve storia di un conservatore al servizio della nazione (2004). Quella conservatrice, per il filosofo inglese, era la disposizione a “prendersi cura delle istituzioni” e ad opporsi alle varianti dell’individualismo liberale e dell’egalitarismo socialista. Sull’esempio di Burke, Coleridge, Ruskin ed Eliot, egli condivise l’anima romantica del conservatorismo, ispirata all’amore per le “cose eterne”, per la comunità e la nazione, portatrici di un’efficace “filosofia della consolazione”, della emancipazione dal ripudio della tradizione, dal nichilismo e dal “non-detto”. Ben distante dai luoghi comuni secondo i quali il conservatore è colui che sta dalla parte dei vecchi contro i giovani, del passato contro il futuro, dell’autorità contro l’innovazione, delle “strutture” contro la spontaneità della vita, Scruton guardava con simpatia a un conservatorismo in grado di abbracciare sì la modernità, ma in modo critico, nella consapevolezza cioè che a una generazione di uomini non è concesso il diritto di distruggere la propria eredità culturale e che le filosofie del “mondo nuovo”, come il socialismo, per cui il futuro dell’umanità consiste nell’abbattimento dell’ordine esistente, non sono che mere illusioni, prodotti di una “sentimentalità” tendente ad occultare i “fatti” della natura umana.

Scruton fu anche uno dei più convincenti difensori della nazione, intesa come “lealtà” tra i membri di una stessa comunità politica, fatta di simboli e immagini pacifiche della terra d’origine, che contribuiscono alla riconciliazione tra classi sociali e creano le condizioni per un processo politico basato sul consenso, piuttosto che sulla forza. La lealtà nazionale, ben diversa tanto dall’attaccamento tribale quanto dalla fedeltà religiosa, è ciò che rende possibile l’amore per un luogo e per i costumi, le narrazioni e le tradizioni che in esso s’iscrivono. Scruton era persuaso che qualsiasi tentativo di sostituire la lealtà nazionale con sistemi internazionalistici ideali costituisse una seria minaccia alle forme di equilibrio locale da cui dipende l’armonia modellata dalla storia e su cui si fonda il potere politico. L’obiettivo di governi transnazionali come l’Unione Europea, ad esempio, coincide con quello di qualsiasi governo rivoluzionario che la storia abbia conosciuto, sia nella forma che nella sostanza, e cioè l’eliminazione delle lealtà territoriali. I comunisti, per Scruton, hanno cercato in tutti i modi di istituire la forma più comprensiva di internazionalismo, ripudiando le lealtà locali in favore dell’attaccamento a un’unica classe. Oltre a liquidare la borghesia, Marx e Lenin finirono per condannare all’oblio tutte quelle forme di lealtà locali che ne costituivano la precondizione.

Dinanzi al quadro tutt’altro che rassicurante che la società occidentale ci proietta, Scruton pensava al rafforzamento dello Stato nazionale, il che voleva dire rifiutare il governo globale in favore di quelle soluzioni negoziate e consensuali da cui dipende ogni autentica democrazia liberale. Una delle più importanti virtù della nazione, infatti, sta nel suo essere posta a garanzia, non a detrimento, della democrazia. Quest’ultima, secondo Scruton, deve la sua esistenza e continuità proprio alla lealtà nazionale condivisa dalle classi sociali, dai gruppi politici sia di governo che di opposizione, dai partiti e dall’intero corpo elettorale, e non è un caso che alla debolezza della lealtà nazionale sia storicamente corrisposto il mancato attecchimento della democrazia. La nazione, ricordava Scruton, è stata da più parti demolita e sostituita da forme di giurisdizione “universali”, “transnazionali”, “illuminate”, ma i tentativi di trascenderla concretamente nell’ambito dell’esperienza politica o si sono storicamente rivelati delle vere e proprie dittature, come nel caso dell’Unione Sovietica, o si sono conclusi in assurdi burocratismi, come nell’esempio dell’Unione Europea.

Se, dunque, l’internazionalismo è l’esaltazione del “nulla” e del “non luogo”, il “ritorno alla nazione” è la restaurazione di una società fondata sull’attaccamento alla famiglia, alla comunità, alla nazione, concepita come “sfera dei doveri e delle lealtà locali” e come ambito proprio della “libertà”, intesa non in senso liberale, come assenza di costrizioni esterne rispetto all’individuo, ma come realizzazione umana nella negoziazione, nel compromesso e nella cooperazione. La società autenticamente libera non è quella che ripudia la legge, che scambia la libertà per licenza e rimuove il sacro nel nome della rivoluzione dei diritti e dell’uguaglianza, ma è la comunità di persone libere, tenute insieme dalle leggi della simpatia e dalle obbligazioni dell’amore familiare.

Per questo occorre superare le filosofie del liberalismo e della liberazione, prodotti di un sentimentalismo che ha tentato di coprire i “fatti” della natura umana, per riconoscere quel dono prezioso che nessuna esperienza politica o religiosa o estetica ha il diritto di distruggere: il bisogno di nazione, la ricerca di casa propria.

Ed è questo, forse, l’elemento più significativo del testamento intellettuale di Sir Roger Scruton.

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