di Alessandro Campi
Se un comico diventa presidente di una grande nazione, come è appena accaduto in Ucraina, non è solo perché gli elettori hanno perso la bussola e le regole del gioco democratico sono saltate ormai dappertutto. Dipende anche dall’incapacità di chi, stando al governo e non facendo nulla, ovvero facendo male e solo per sé e i propri accoliti, finisce per convincere il prossimo che tanto vale affidare la cosa pubblica al primo che passa: si tratti appunto di un attore, di una cuoca o di un disoccupato. Per fare politica oggi il primo requisito è in effetti diventato non essere un politico o dichiarare di non esserlo e di non volerlo diventare.
In Ucraina in fondo è successo questo. Tale era il discredito accumulato dal presidente uscente Petro Poroshenko – accusato a gran voce e a ragione di non aver fatto nulla per frenare la corruzione endemica, per ridurre il potere degli oligarchi, per avviare un serio piano di riforme economiche e per risolvere il conflitto militare nella regione orientale del Donbass (rispetto al quale si è limitato a giocare la carta del nazionalismo anti-russo) – che a travolgerlo è bastata la candidatura di un attore televisivo che nell’immaginario collettivo peraltro già rivestiva il ruolo che adesso ha ufficialmente conquistato.
Volodymyr Zelenskiy (nella foto in alto) deve infatti la sua popolarità al personaggio che ha interpretato sul piccolo schermo nel programma intitolato “Servo del popolo”: un professore di storia che diventa presidente grazie alle sue invettive contro le malversazioni dei politici messe in rete dai suoi studenti. Non è la realtà che supera la fantasia ma è quest’ultima che, in un’epoca interamente basata sul potere della comunicazione e dell’immagine, informa e plasma la prima.
In Ucraina esiste da alcuni anni un Museo statale della corruzione: si tratta della sontuosa e pacchiana residenza privata che Viktor Yanukovych, tre volte primo ministro e presidente dal 2010 al 2014, si era fatto costruire con i soldi rubati ai contribuenti e con i proventi delle tangenti. Yanukovych era un corrotto notorio e sfacciato. Dopo la sua cacciata dal potere si è deciso di trasformarne l’abitazione nel simbolo di un rinnovamento del costume politico che però semplicemente non c’è stato. E gli elettori ucraini, esasperati e sfiduciati nei confronti della politica cosiddetta tradizionale o professionale, ne hanno tratto le conseguenze, prendendo per buone la promessa di Zelenskiy di smantellare il vecchio sistema e di cambiare tutto.
Si tratta in realtà di un copione politico che ormai tende a ripetersi ogni volta che la stasi decisionale di chi governa si somma all’illegalità (anche solo percepita), alla mancanza di trasparenza nella gestione del potere e all’incapacità a soddisfare le attese (peraltro sempre più crescenti) dei cittadini. Il successo in Italia del M5S è dipeso proprio da questo stesso meccanismo: la delegittimazione del potere esistente che porta alla rivolta contro quest’ultimo nel nome dell’onestà, della verginità politica e di una moralità assoluta. Ma come dimostrano la vita stentorea del governo giallo-verde e la crisi ormai manifesta della giunta Raggi a Roma da un tale meccanismo rischiano di essere travolti anche coloro che ne hanno beneficiato. Se è facile vincere sfruttando il disgusto popolare verso chi comanda, è altrettanto facile perdere quando poi, nel passaggio dall’opposizione al governo, non si riesce a concretizzare nulla del cambiamento tanto sbandierato.
Dopo chi che non facciamola troppo facile. Il malgoverno e il non-governo sono una causa di discredito della politica e di malumore popolare che a loro volta debbono essere spiegati. Perché sempre più non si riesce a realizzare ciò che si promette nelle campagne elettorali? Può certo dipendere dall’incapacità dei singoli, o da qualche difficile congiuntura, ma molto dipende anche dal circolo vizioso nel quale sono avviluppati tutti coloro che oggi vanno a caccia del consenso popolare. Rispetto ad elettorati ideologicamente disincantati, che non votano più per appartenenza o convinzione intima, chi vuole conquistare i voti tende ormai ad alzare continuamente la posta in termini di promesse che fatalmente è poi costretto a disattendere: dall’illusione (momentanea) dei cittadini si passa così alla loro disillusione e rabbia, il che spiega perché i leader odierni, ad ogni livello, salgono e scendono così velocemente nella considerazione pubblica. E’ anche un problema di risorse economiche, che sono oggi molti più scarse rispetto al passato per chiunque governi o amministri. Accade dunque che nel timore di scegliere scontentando qualcuno si finisce spesso per non scegliere scontentando tutti. E la politica, già delegittimata, si delegittima ulteriormente.
Ma a complicare le cose ci sono i cambiamenti – sociali, culturali – recentemente intervenuti nei meccanismi di costruzione del consenso politico, talmente radicali da gettare più di un’ombra sul futuro delle nostre democrazie e sul loro modo di funzionare. Si trovano ben descritti in un libro appena uscito del politologo Luigi Di Gregorio intitolato “Demopatìa” (Rubbettino, 2019). Ad esempio il passaggio dall’opinione pubblica all’emozione pubblica; la colonizzazione della sfera pubblica ad opera di quella privata (con una crescente predilezione per il gossip e la dimensione intima della vita dei politici); la sindrome narcisistica che affligge ormai gli individui e che come effetto produce il loro concentrarsi sul “qui ed ora” e sulla gratificazione immediata a scapito del passato e del futuro; l’imporsi di un universo simbolico-cognitivo nel quale ormai si fatica a distinguere cos’è reale e cos’è invece falso o artefatto o semplice finzione; la trasformazione dei leader politici in follower preoccupati solo di assecondare e inseguire il loro “pubblico”; il rifiuto delle autorità costituite e delle fonti di sapere scientifico nel nome di una visione orizzontale e radicalmente egualitaria dei rapporti sociali; il fatto infine che la politica abbia (ormai da anni) adottato le tecniche verbali e posturali dell’intrattenimento televisivo sino a restare vittima di un linguaggio sempre più semplificato e di un modo d’agire che non puntano più al convincimento attraverso la ragione ma alla seduzione attraverso lo spettacolo.
Si tratta di una rivoluzione antropologica in gran parte imputabile alle innovazioni tecnologiche che hanno investito le società post-moderne e della quale probabilmente non siamo ancora del tutto consapevoli. Se oggi per ottenere consenso e andare al governo basta essere simpatici, irriverenti, popolari, telegenici e naturalmente digiuni di politica, e al diavolo dunque la competenza, l’esperienza, i programmi e i ragionamenti troppo complicati, la colpa non è solo della politica e dei politici che hanno smesso colpevolmente di fare bene il loro mestiere. Forse c’è qualcosa che non va anche nel modo in cui pensano e agiscono i cittadini e nel modo in cui tutti siamo profondamenti cambiati, senza volerlo ammettere.
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